Consiglio di sicurezza: il perché di un fallimento
Così come stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza è l'organo esecutivo dell'ONU, responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Nei conflitti reali, tuttavia, viene spesso bloccato e impossibilitato ad agire. Le riforme arrancano da tempo. Di seguito ve ne spieghiamo le ragioni, presentando anche il ruolo propositivo della Svizzera.
Come funziona il Consiglio di sicurezza?
Funziona alla meno peggio, nel senso che tenta di aggrapparsi a ciò che resta, considerati i giochi di forza delle potenze al suo interno. Il periodo post-sovietico è stato contraddistinto da una cooperazione esemplare, favorita soprattutto dalla debolezza della Russia e dal chiaro interesse della Cina ad integrarsi nell’economia mondiale.
Oggi assistiamo a un movimento contrapposto, con la Cina che consolida la sua posizione di potenza globale, e la Russia che tenta di ricostituire la sfera d’influenza sovietica. Grandi Paesi come il Brasile, la Nigeria, il Sudafrica o l’India rivendicano da tempo uno spazio come attori indipendenti.
Il Consiglio conta 15 Paesi membri, cinque dei quali in veste permanente (le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale USA, Gran Bretagna, Francia, Cina, Unione sovietica/Russia) e con diritto di veto sulle decisioni, che possono così essere bloccate.
I dieci membri rimanenti sono eletti dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per un periodo di due anni sulla base di una chiave di riparto geografica (2 dall’Asia, 2 dall’America latina, 3 dall’Africa, 2 dall’Europa occidentale, 1 dalla zona dell’Est postcomunista).
Le decisioni, chiamate risoluzioni, vengono prese con una maggioranza di 9 voti, sempre che nessuno dei membri permanenti (P5) ponga il suo veto. Il veto non viene applicato alle risoluzioni “procedurali”.
Per gli Stati membri le risoluzioni sono vincolanti ma prive di conseguenze, a meno che siano state adottate in applicazione del Capitolo 7 dello Statuto (misure coercitive). In tal caso gli Stati sono sollecitati a inviare soldati dell’ONU, noti come caschi blu, e a adottare misure di blocco contro Paesi, aziende o singoli individui (embargo commerciale, blocco di conti e rifiuto di visti). La Svizzera segue automaticamente questa linea d’azione.
Quali sono i problemi?
Per correttezza va ribadito che il Consiglio di sicurezza non è sempre bloccato. Sulla maggior parte dei circa cinquanta punti contemplati dal suo ordine del giorno emette delle risoluzioni, come è stato il caso quest’anno a proposito della situazione in Afghanistan o in Sudan.
Quando gl’interessi delle grandi potenze sono direttamente toccati, il veto (o la minaccia di interporlo) impedisce al Consiglio di prendere una decisione o posizione. Esempi di estrema attualità sono l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia o le incursioni di Israele nella Striscia di Gaza, ma anche questioni come le azioni della Cina contro la popolazione civile musulmana o la situazione dei detenuti nella zona di non diritto della base militare americana di Guantanamo.
Si tratta per così dire di sabbie mobili sul terreno d’azione del Consiglio, che purtroppo si stanno allargando. La proroga dei mandati in essere viene messa sempre più in discussione o appesantita dal veto.
Conquiste di peso come lo è stata la risoluzione 1325Collegamento esterno (“Donne, pace, sicurezza”), che pone durevolmente all’ordine del giorno del Consiglio l’inclusione delle donne negli sforzi di ottenimento della pace, oggi sono impensabili. Come lo è l’invio di grossi contingenti di caschi blu, sulla falsa riga di quanto istituito dopo la fine della guerra fredda in Africa.
L’operato del Consiglio è oscurato da sfiducia e scarsa volontà di cooperazione, che intaccano anche i dettagli delle sue attività. La legittimità degli oratori o dei membri delle delegazioni viene ad esempio contestata regolarmente e la guerra in Ucraina portata avanti secondo il motto occhio per occhio, dente per dente. Quando i membri occidentali convocano una riunione sulla guerra, la Russia rilancia con un incontro sulle forniture di armi a Kiev da parte dell’Occidente.
Viene così sprecato tempo prezioso per le riunioni (il Consiglio e i suoi organi sussidiari tengono circa 800 riunioni all’anno) e messe al muro le risorse della presidenza mensile a rotazione del Consiglio, che la Svizzera assumerà per la seconda volta questo ottobre.
L’odioso gioco del gatto col topo viene favorito dalla mancanza di chiare regole procedurali. Il Consiglio di sicurezza dispone solo di un regolamento “provvisorio”, che ovviamente oltre a lasciare troppo spazio di manovra all’interpretazione e all’improvvisazione è un invito a nozze per i sabotatori.
Le buone pratiche consolidate nel corso degli anni sono state riassunte nel 2017 in una “Nota presidenziale” (presidential note 507).
Un problema di entità diversa sussiste anche laddove il Consiglio di sicurezza fa bene il suo lavoro. Non esistono infatti mezzi d’impugnazione da interporre contro i decreti di embargo. Chiunque ne sia colpito, perdendo ad esempio l’accesso ai propri conti bancari o vedendosi rifiutato un visto per l’estero a causa di una decisione del Consiglio di sicurezza, non ha alcuna possibilità di adire le vie legali.
Nel quadro delle sanzioni pronunciate contro al-Qaida/Stato Islamico esiste un organo di mediazione, che vaglia i casi e all’occorrenza avanza delle raccomandazioni. Per i restanti 14 regimi di sanzioni un ufficio di contatto (focal point) del Segretariato delle Nazioni Unite riceve i reclami, che spesso sono senza conseguenze e si arenano nei meandri della burocrazia.
Che tipo di riforme vengono proposte?
Le due riforme più urgenti riguardano la composizione del Consiglio e il diritto di veto dei P5. Gli Stati membri rispecchiano la situazione alla fine della Seconda guerra mondiale, con l’esclusione delle potenze sconfitte (Germania, Giappone). La maggior parte degli attuali Stati erano colonie europee.
Il Consiglio dovrebbe ricalcare meglio il mondo attuale, ma le discussioni sulla formula perfetta si prolungano da quasi quarant’anni senza esito alcuno. Lo stesso dicasi per il diritto di veto. Entrambe le modifiche richiederebbero un emendamento dello Statuto delle Nazioni Unite, che deve essere adottato e ratificato con una maggioranza dei due terzi e approvato da tutti i P5.
In pratica, non è realistico pensare che questo accada, ecco perché la Francia e un gran numero di altri Paesi – tra cui la Svizzera – esigono un’autolimitazione su base volontaria. Quando si tratta di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, i P5 dovrebbero rinunciare automaticamente al loro veto.
Tutta una serie di proposte di riformaCollegamento esterno si concentra sulla “metodologia di lavoro”, senza spingersi a proporre una riorganizzazione in grande stile. Il Consiglio nella sua composizione attuale dovrebbe aprirsi.
Si esigono rapporti dettagliati all’attenzione degli altri Paesi, un maggior coinvolgimento delle opinioni della società civile, oppure un’attenzione più sensibile verso coloro che sono colpiti dalle decisioni del Consiglio, in particolare in materia di ricorso contro le decisioni di embargo.
Il ruolo della Svizzera
Da due decenni la Svizzera si adopera per la riforma delle metodologie di lavoro. Dopo il summit mondiale del 2005 ha costituito il gruppo dei Cinque piccoli (Small Five) con il Liechtenstein, la Giordania, Singapore e Costa Rica e si è battuta per una risoluzione in seno all’Assemblea generale.
Il sostegno è stato considerevole, ma a causa delle forti pressioni esercitate dai tre grandi Paesi membri (USA, Russia e Cina), la bozza non è stata messa ai voti. I Cinque piccoli sono stati sostituiti da 27 Stati che perseguono gli stessi obiettivi con il nome di Gruppo ACT (accountability, coherence, transparency).
Anche la Svizzera ne fa parte. La riforma delle metodologie di lavoro è una delle quattro priorità della Svizzera in seno al Consiglio di sicurezza.
Cosa funziona? E quali sono le opportunità?
Dal 1945, lo Statuto delle Nazioni Unite è stato emendato cinque volte ma, nella situazione in cui volgiamo, un’ulteriore modifica è assai poco probabile. Il miglioramento delle possibilità di ricorso contro le misure sanzionatorie è fermo al palo.
Il mandato dell’organo di mediazione per le sanzioni contro i sostenitori di Al-Qaida e Stato Islamico scade nel giugno 2024, e gli Stati Uniti sono responsabili di negoziare un rinnovo. Malta si assume l’incarico di riformulare il mansionario del focal point per gli altri 14 regimi di sanzioni.
Per quanto attiene alle metodologie di lavoro tutto lascia presagire non tanto un’espansione, quanto piuttosto uno smantellamento. La considerazione per le opinioni della società civile o per nuove forme di collaborazione (“Dialoghi”, formati “interattivi”) viene sempre più contestata.
Il Giappone sta lavorando all’aggiornamento della Nota presidenziale 507 con l’obiettivo di raggiungere un accordo entro fine anno. Si sta concentrando sul consolidamento dei risultati raggiunti e sugli adeguamenti tecnici da adottare. Ad esempio, l’ammissibilità dei messaggi Internet in sostituzione dei fax nelle comunicazioni ufficiali.
A cura di Marc Leutenegger
Traduzione, Lorena Mombelli
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