Migrazione climatica: l’esempio del Bangladesh mostra che è diversa da come la immaginiamo

Il cambiamento climatico riguarda sempre più persone. Dove va chi è costretto a lasciare la sua casa? I risultati sorprendenti di uno studio realizzato in Bangladesh dal Politecnico federale di Zurigo.
È uno dei più grandi slum di Dhaka, la capitale del Bangladesh. A Korail abitano circa 50’000 persone – a un tiro di schioppo dal distretto finanziario di Gulshan, il quartiere più ricco della megalopoli. Fra loro ci sono Salme e Shajahan, che insieme alle loro famiglie hanno lasciato l’isola di Bohla per cercare lavoro nel vicino Gulshan.

Salme e Shajahan hanno intrapreso la via della migrazione in seguito alla distruzione delle loro case, provocata da eventi naturali. Negli ultimi decenni l’isola di Bohla, così come tutta la costa del Paese, è sempre più spesso soggetta a cicloni di crescente potenza. L’erosione e la salinizzazione del terreno mettono a repentaglio la sussistenza di molte persone, proprio come è accaduto a Salme e Shajahan.
“Sono vedova e oggi mi ritrovo da sola con mio figlio in una casa fatiscente. Ma non abbiamo alternative. Non possiamo tornare a Bohla, perché il mare sta conquistando la terra”, racconta Salme. Almeno, nella vicina Gulshan c’è lavoro.
Ma la situazione è precaria, conferma Shajahan: “Io, mia moglie e le nostre sette creature abitiamo su un pezzo di terra che di fatto appartiene al Governo. Il nostro destino è nelle sue mani, potrebbe in qualunque momento sfrattarci”. E non sarebbe la prima volta: queste due famiglie sono già state in precedenza di casa in slum simili. Prima di arrivare, qualche anno fa, a Korail.

Salme e Shajahan appartengono a una categoria oggi in crescita, quella dei “migranti climatica”. La scelta di trasferirsi da un’isola alla megalopoli ne è considerata un fenomeno tipico. Tuttavia, avviene molto meno spesso di quanto si tenda a pensare.
Jan Freihardt del Politecnico federale di Zurigo ha studiatoCollegamento esterno il fenomeno in Bangladesh. La sua conclusione: “La migrazione climatica è un fenomeno assolutamente marginale”. Freihardt e il suo team di ricerca hanno seguito per oltre quattro anni 2’200 persone originarie di una specifica zona nel nord del Paese, lungo le rive del fiume Jamuna. Lì, il problema più serio è l’erosione delle sponde del fiume.
“Nel periodo di tempo in cui abbiamo seguito da vicino queste persone, oltre il dieci per cento della popolazione locale ha abbandonato il proprio villaggio. La maggior parte si è spostata in un comune vicino, poche persone si sono trasferite nelle città dei dintorni e peraltro solo temporaneamente. Quasi nessuno è emigrato all’estero”. Risultati incontrovertibili, che hanno sorpreso il ricercatore.
Con i suoi oltre 170 milioni di abitanti, il Bangladesh è uno dei Paesi al mondo con la maggiore densità abitativa. È anche una delle nazioni più povere del continente asiatico. Si tratta, inoltre, di uno dei Paesi potenzialmente più toccati dagli effetti del cambiamento climatico; in virtù delle sue caratteristiche topografiche, viene considerato un vero e proprio “hotspot”.
Oltre ai già menzionati cicloni, il Bangladesh viene regolarmente colpito da periodi di sempre più marcata siccità, in alternanza con inondazioni, dovute all’aumento delle precipitazioni e allo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya che alimentano gli 800 corsi d’acqua del Paese.

Asilo, migrazione e politica
È piuttosto comune, la convinzione che la migrazione climatica comporti il trasferimento verso centri urbani o all’estero. Ma non è corretta: la maggioranza delle persone migra all’interno del proprio territorio d’origine, e in gran parte rimane a due passi da casa.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) ha adottato questa definizioneCollegamento esterno: “La migrazione climatica è lo spostamento di una persona, o di un gruppo di persone, che prevalentemente a causa di un improvviso o progressivo cambiamento delle condizioni ambientali, attribuibile al cambiamento climatico, sono costrette a lasciare il proprio luogo di residenza, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, spostandosi all’interno dello stesso Paese o verso l’estero”.
Il ricercatore svizzero sottolinea: “Lo spauracchio della migrazione agita la politica, e viene sempre più spesso messo in relazione con il cambiamento climatico. Per questo, è sempre più importante avere a disposizione dati solidi”.
I temi dell’asilo e della migrazione hanno in effetti un crescente peso nei dibattiti politici nazionali. Con toni sempre più allarmistici, come mostra un esempio tutto svizzero. Nel 2020, il deputato dell’Unione democratica di centro (destra sovranista) Thomas Matter ha dichiarato: “La questione climatica potrebbe diventare una perfetta scusa per persone originarie del continente africano (…) che a milioni vogliono muoversi verso il continente Europa, dove la popolazione già si sta moltiplicando alla velocità della luce”.
La dichiarazione di Matter è arrivata nel quadro del dibattito parlamentare su un’iniziativa da lui propostaCollegamento esterno, “Escludere persone rifugiate cosiddette ecologiche e climatiche, dalla definizione di migrante così come contenuta nella legge sull’asilo”.
L’iniziativa Matter è stata respinta, ma il dibattito sui temi legati alla migrazione si è fatto sempre più affilato, con conseguenze anche pratiche. Così anche la Svizzera, come molti altri Paesi in Europa, ha deciso di ridurre l’aiuto internazionale allo sviluppo.
I tagli sono stati decisamente più drastici e di più ampio respiro nell’ambito della decisione della seconda amministrazione Trump di cancellare i contribuiti USAID. Il Bangladesh è toccatoCollegamento esterno da entrambe queste decisioni.
La cooperazione internazionale è una delle vittime del programma di risparmio avviato in Svizzera. Nei prossimi anni, saranno cancellati circa 430 milioni di franchi. I tagli riguardano anche il Bangladesh: la Direzione dello sviluppo e della cooperazione ha stabilito che i programmi bilaterali di sviluppo nel Paese asiatico, così come in Albania e Zambia, saranno interrotti entro il 2028.
La Svizzera è attiva da cinquant’anni in Bangladesh. Gli interventi mirati al contenimento delle conseguenze negative del cambiamento climatico erano uno dei pilastri dell’intervento umanitario.
La migrazione all’estero è generalmente diffusa in Bangladesh. Quella motivata dalla ricerca di lavoro c’è sempre stata, ed è sempre stata caratterizzata da numeri importanti, tanto che nel 2020 circa 7,4 milioni di persone originarie del Paese vivevano all’estero. La nazione è fra le cinque al mondo che hanno il tasso più alto di emigrazione.
Secondo l’edizione 2024 del World Migration Report, nel 2022 il costo per i rinvii di persone dall’estero al Bangladesh ha toccato i 21,5 miliardi di dollari, pari a poco più del 4,5% del PIL del Paese. Tre quarti di questa cifra sono attribuiti ai Paesi del Golfo, che più di tutti ospitano persone che emigrano dal Bangladesh per trovare lavoro.
Si stima che fossero circa 281 milioni nel 2020, in tutto il mondoCollegamento esterno, le persone migranti – il 3,7% della popolazione mondiale. Fra queste, sarebbero pochissime quelle riconducibili alla migrazione climatica, anche se si presume che il loro numero dovrebbe in futuro progressivamente aumentare.
Le organizzazioni non governative mettono regolarmente in guardia sulla cancellazione del sostegno a persone danneggiate dal clima, perché avrebbe un effetto controproducente: è proprio laddove finisce per mancare il supporto in loco, che si finisce per emigrare. “Spesso si ritrovano a partire in seguito ad un disastro ambientale, perché non hanno risorse per ricominciare”, racconta Prashant Verma, responsabile per Helvetas dei progetti in Bangladesh.
“Sono le persone più povere a ritrovarsi a mal partito di fronte ai cambiamenti del clima. Se le si aiuta a trovare soluzioni adeguate al nuovo contesto, generalmente preferiscono rimanere dove sono. Ma se non ricevono aiuto, sono spesso costrette a trasferirsi altrove per procurarsi denaro, per esempio per essere in condizione di ripagare un debito “, afferma Verma.
In che modo i cambiamenti climatici influenzano le migrazioni? Un video del Politecnico federale di Zurigo sulla ricerca di Jan Freihardt (in inglese):
Imparare dal Bangladesh l’arte della sopravvivenza
Jinat Hossain conduce all’Università di Zurigo studi nel Sundarbans, una regione costiera del Bangladesh caratterizzata da enormi foreste di mangrovie e toccata da problemi diversi da quelli che affliggono il nord del Paese: “La questione più rilevante è la salinizzazione del terreno”. Questione difficile da gestire, racconta la ricercatrice, e che causa pertanto maggiori movimenti migratori.
Si tratta spesso, comunque, di fenomeni passeggeri: le donne si recano per un periodo limitato a lavorare nelle fabbriche tessili cittadine, mentre gli uomini si procurano impieghi stagionali in altre parti del Paese. Alcune persone, infine, emigrano all’estero, in genere dove già vivano conoscenti che provengono della loro regione.
Oltre alle condizioni del territorio, secondo Hossein gioca un ruolo anche il fatto che nel Sundarbans da tempo sono attivi progetti nazionali e internazionali per l’adattamento al cambiamento climatico: “L’influenza di idee e del supporto mette a disposizione delle persone coinvolte più opzioni”, dice.
Secondo l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-MoonCollegamento esterno, il Bangladesh è considerato un pioniere della migrazione climatica. Il Governo di Dhaka sostiene numerose iniziative locali, che puntano a integrare rapidamente le persone colpite, in base a modelli che ipotizzano una crescente migrazione specificamente legata al fenomeno. Sostenendole in particolare con misure che puntano a farle rimanere nel loro territorio d’origine.
“Di fronte a una concreta prospettiva, nessuno vuole lasciare il proprio Paese. Quello che queste persone vogliono, è sicurezza per le proprie famiglie e la possibilità di adattarsi alla nuova realtà”, conclude Jinat Hossain. E questo, in fondo, significa anche: aiuto dall’estero. Ma in questo momento storico, sta avvenendo esattamente il contrario.
A cura di Marc Leutenegger
Traduzione di Serena Tinari

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