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“Non si può dare la colpa della pandemia alla densità urbana”

linee gialle sulla strada che indicano dove bisogna stare per mantenere una distanza di due metri
Adesivi, frecce e strisce di nastro adesivo indicano la direzione da seguire e il posto in cui stare per mantenere le distanze sociali in città. © Keystone / Christian Beutler

La storia ci insegna che le città sono spesso focolai delle pandemie. La diffusione del nuovo coronavirus non fa eccezione. Ciò ha sollevato vari interrogativi sulla progettazione delle future aree urbane. Con l'aiuto di un videogioco, il professore e ricercatore Andri Gerber intende dimostrare che le zone densamente popolate possono essere ripensate per affrontare le sfide sanitarie future.

Nel 2050, il 68 per cento della popolazione mondiale vivrà in aree urbane. In passato, gli esperti hanno sempre sostenuto che questo fenomeno avrebbe favorito l’efficienza energetica. Oggi, l’accento viene posto soprattutto sul pericolo di diffusione di una malattia in zone altamente popolate.

Il videogioco DichtestressCollegamento esterno (dal tedesco, “stress da densità”), sviluppato dal team di ricercatori guidati dal professore Adrian Gerber, dà la possibilità al giocatore di conoscere la relazione tra densità della popolazione e pericolo di infezione.

Andri Gerber, docente presso il Dipartimento d’architettura, design e ingegneria civile dell’Università di scienze applicate di Zurigo (ZHAW), crede che le pandemie e il cambiamento climatico ci obbligheranno a costruire città densamente popolate e sicure dal punto di vista della salute pubblica.

Il giocatore si muove su sei livelli in una prospettiva in prima persona. Ogni livello ha una densità di popolazione diversa e presenta città nate in epoche differenti. Il gioco permette di tuffarsi nella storia architettonica degli ultimi 500 anni. È possibile camminare nella “città ideale” realizzata nel 1490 dall’architetto Francesco di Giorgio Martini, nella Walled City a Kowloon a Hong Kong, demolita nel 1995, e nel quartiere Niederdorf a Zurigo nel 2020.

Rispettando la distanza di un metro e mezzo, distanza raccomandata dalle autorità sanitarie, il giocatore deve cercare la via d’uscita, evitando nel contempo di contagiare altre persone.

Il gioco è disponibile per i sistemi operativi iOS e Android. I dispositivi mobili non sono supportati. Cliccando sul link sottostante trovate ulteriori informazioni e potete accedere al gioco:

https://itch.io/embed-upload/2744814?color=ffffffCollegamento esterno

swissinfo.ch: Come descriverebbe la relazione tra pianificazione urbana e pandemie?

Andri Gerber: Fin dall’antichità greco-romana, la città è sinonimo di sicurezza e civiltà. L’alternativa è il caos e la precarietà. È una percezione errata della realtà che induce le persone a dimenticare – o a non pensare – che le città sono luoghi pericolosi, soprattutto perché possono diventare dei focolai di contagio di una malattia come la Covid-19.

Per esempio, nel corso dei secoli Zurigo ha conosciuto innumerevoli pandemie di colera, tifo e altre malattie che hanno causato la morte di centinaia di migliaia di persone.

Per natura, le pandemie sono anti-urbane perché in un’agglomerazione le persone condividono uno spazio molto ristretto. Ciò contraddice il principio del distanziamento sociale volto a evitare la trasmissione di un virus. Far vivere molta gente nello stesso luogo aumenta naturalmente il rischio di contagio.

La storia dell’urbanistica è segnata dalle epidemie e dal tentativo di creare spazi urbani migliori e più sani.

La pianificazione urbana viene quindi ripensata all’indomani di un’epidemia? Ciò significa che l’urbanistica cerca di trovare la soluzione a un problema impellente, invece di agire in maniera proattiva?

Sì e no. Nell’antichità greca, gli urbanisti avevano già fissato dei criteri per scegliere un luogo ideale dove costruire una città sana.

“Le città sono luoghi pericolosi, soprattutto perché possono diventare dei focolai di contagio di una malattia come la Covid-19.”

Ippocrate di Coo, un medico greco vissuto nel V secolo a.C., suggerì di analizzare il fegato di un animale prima di iniziare la costruzione della città. Questa pratica permetteva di divinare se un posto sarebbe stato salutare per gli abitanti. Dopo aver lasciato pascolare gli animali sull’area dove sarebbe stata eretta la città, le bestie venivano sacrificate durante un rito religioso. Il loro fegato veniva esaminato per capire se l’animale fosse stato infettato da qualche malattia trasmissibile. Se l’acqua o l’erba erano malsane, i greci abbandonavano il sito e andavano a cercarne un altro. I greci valutavano attentamente la salubrità dell’aria, l’irraggiamento solare e la temperatura prima di pianificare una città.

Bisogna ricordare che una città non viene costruita in tre o quattro anni, ma in uno o due secoli.

Se volgiamo lo sguardo al passato, in Svizzera e in altri Paesi si sono adottate misure in ambito urbanistico per lottare contro le malattie infettive?

Prima del XIX secolo, i nostri antenati concentravano la loro attenzione soprattutto su questioni di natura infrastrutturale quali le strade, i mezzi di trasporto pubblici e i servizi sanitari. Se una città veniva colpita da un’epidemia, gli abitanti ammalati venivano semplicemente allontanati dall’agglomerato. Si trattava di misure volte a contenere la malattia piuttosto che di soluzioni urbanistiche a lungo termine per prevenire i contagi. Il fatto di non conoscere l’origine di un’epidemia impediva loro di andare alla radice del problema.

La mappatura delle malattie ha fatto un notevole balzo avanti nel XIX secolo. Nel 1854, John Snow, che spesso è definito il “padre dell’epidemiologia”, segnò su una mappa lo sviluppo di un’epidemia di colera a Londra e in questo modo fu in grado di scoprire da dove era partita. Il suo lavoro cambiò radicalmente l’approccio epidemiologico per quanto riguarda l’igiene pubblica e la progettazione urbana. La popolazione ha iniziato a capire che si poteva risalire alla fonte dell’infezione e che era possibile prevenire e controllare la diffusione delle malattie, ripensando le strutture urbane.

Da allora, intere infrastrutture urbane sono state ricostruite, soprattutto quelle idriche e sanitarie. Molte città cambiarono volto. A Zurigo, i fossati medievali su entrambi i lati del fiume Limmat sono un esempio di questa rivoluzione urbanistica. Prima dell’introduzione dei servizi igienici e delle fognature sotterranee, questi stretti canali tra gli edifici servivano da fogne a cielo aperto. Gli scarti alimentari e le feci finivano direttamente in questi fossati.

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Fossati medievali nel quartiere Niederdorf di Zurigo che fungevano da fogne. Thomas Hussel / Baugeschichtliches Archiv der Stadt Zürich

La città cinese di Wuhan, da cui ha avuto origine la pandemia di Covid-19, ha il più elevato tasso di densità di popolazione in Cina. New York, la città statunitense più altamente abitata, è stata l’area urbana più colpita dal virus negli Stati Uniti. Si può quindi affermare che l’alta densità di popolazione è la causa principale o determinante per la diffusione di una malattia infettiva.

No, non è così. Non si può dare la colpa della pandemia alla densità urbana. La questione centrale è come possiamo progettare città densamente popolate affinché non si trasformino in focolai di una malattia.

New York, per esempio, è una città con pochissime aree verdi e un parco gigantesco nel mezzo, il Central Park. La sua struttura urbana poco diversificata non è ideale per contenere la diffusione di un virus. Gli spazi verdi dovrebbero essere sparsi un po’ in tutta la città. In Europa, le città classiche hanno più parchi metropolitani che danno loro una maggiore resistenza contro le pandemie.

“Il problema della Svizzera è che tutte le città, le cittadine e i villaggi sono estremamente interconnessi tra di loro.”

Tuttavia, non c’è dubbio che le vie medievali con case addossate le une alle altre, com’è il caso nel quartiere storico di Zurigo, non sono un ottimo esempio di prevenzione nei confronti di una pandemia a causa dell’alta densità di popolazione.

È chiaro che la densità è una questione che va esaminata per conoscere la relazione tra pandemia e pianificazione urbana. È questo l’intento del nostro videogioco Dichtestress, in cui sono presentati vari livelli di densità di popolazione e diversi modi di costruire le città. Il gioco ha una forte componente politica e vuole affrontare le attuali critiche relative alla densificazione. Grazie al videogioco si capisce che bisogna lasciare spazio a sufficienza per permettere alla gente di uscire all’aperto senza per questo dover contravvenire alle misure di distanziamento sociale.

In Svizzera non ci sono delle megalopoli secondo la definizione delle Nazioni Unite. Ciò significa che le città svizzere sono più resistenti al nuovo coronavirus visto che hanno un tasso di urbanizzazione e densità piuttosto basso?

In effetti, in Svizzera non ci sono megalopoli. Ma il Paese intero potrebbe essere considerato una megalopoli con una densità di popolazione relativamente bassa.

Il problema della Svizzera è che tutte le città, le cittadine e i villaggi sono estremamente interconnessi tra di loro grazie all’articolata rete di trasporti pubblici e alla mobilità delle persone. Sono due elementi che non favoriscono il contenimento della pandemia.

Molti ricercatori sostengono che le città del futuro devono essere più regionalizzate e localizzate, soprattutto alla luce di ciò che abbiamo vissuto durante questa pandemia. Melbourne, in Australia, ha proposto un nuovo concetto di “città dei 20 minuti”, in cui in venti minuti è possibile raggiugere a piedi o in bicicletta tutto ciò di cui si ha bisogno: negozi, scuole, spazi ricreativi, strutture sportive e assistenza sanitaria. Una simile struttura urbana potrebbe essere la chiave per lottare efficacemente contro una pandemia?

Un esempio analogo è la città dei 15 minuti che si sta sperimentando a Parigi. Simili idee sono molto interessanti e vengono discusse anche in Svizzera. Rispetto ad altri Paesi, le città svizzere sono più piccole, hanno meno abitanti e sono già una sorta di città dei 15 minuti. Più che l’aspetto della salute pubblica, il tema centrale in Svizzera è la sostenibilità. In altre parole, simili idee non sono considerate efficaci per prevenire una pandemia.

Molti ricercatori sostengono che la Covid-19 non sparirà mai completamente e che in futuro saremo confrontati con altre pandemie. Credo quindi che una città ideale dovrebbe essere in grado di affrontare varie sfide. Non penso solo alle pandemie, ma anche alle guerre, ai disastri naturali, ai rischi ambientali e ad altre situazioni analoghe. Se davvero le malattie infettive faranno parte della nostra quotidianità, le città del futuro dovranno permetterci di vivere comunque una vita quasi normale.

Traduzione dall’inglese: Luca Beti

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