Il CO2 dei rifiuti svizzeri nel mare del Nord
I gestori di impianti di trattamento dei rifiuti in Svizzera intendono catturare il CO2 che esce dalle loro ciminiere e immagazzinarlo in fondo al mare. Un'idea che piace ai Verdi, ma che deve ancora superare diversi ostacoli.
“La generazione precedente ha creato delle canalizzazioni per recuperare e trattare le acque di scarico (…) La nostra generazione deve creare una rete analoga per il CO2”, scrive l’Associazione svizzera dei gestori di impianti di trattamento dei rifiuti (ASIR) in una lettera indirizzata alla presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga e resa pubblica dalla televisione svizzera di lingua francese RTS.
Nel quadro dell’Accordo di Parigi sul clima, la Svizzera si è impegnata a ridurre drasticamente le sue emissioni. Come diversi altri Paesi si è posta l’obiettivo di raggiungere un bilancio netto delle emissioni pari a zero entro il 2050. Secondo l’ASIR, sarebbe quindi “ecologicamente ed economicamente giudizioso” impedire al CO2 di liberarsi nell’atmosfera e catturarlo laddove è prodotto in modo concentrato. Ad esempio negli inceneritori.
“Vogliamo essere attori della transizione energetica”, dice a swissinfo.ch Daniel Baillifard, direttore generale dell’impianto di trattamento dei rifiuti Satom di Monthey, in Vallese. La sua intenzione è di equipaggiare i suoi forni con un sistema di cattura del CO2. Un progetto pilota che assieme a quello dell’inceneritore di Linth, nel canton Glarona, potrebbe fare scuola in tutta la Svizzera.
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I 30 inceneritori in funzione in Svizzera trattano circa 4 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno. Sono responsabili di circa il 5% delle emissioni totali della Confederazione. La metà delle emissioni che fuoriescono dalle ciminiere è di origine fossile (ad esempio rifiuti plastici), l’altra metà proviene dalla biomassa (legname, ingombranti, scarti dell’edilizia…).
“Il fatto di catturare anche il CO2 generato dalla biomassa, quindi di materiale che si sarebbe comunque decomposto in natura, ci consente di essere negativi dal punto di vista delle emissioni poiché sottraiamo gas dall’atmosfera”, sostiene Daniel Baillifard. Sorge però un interrogativo cruciale, sottolinea: che cosa fare del CO2?
Per l’ASIR, l’unica soluzione percorribile è lo stoccaggio definitivo in giacimenti geologici. Quindi nelle profondità del pianeta.
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Un immagazzinamento definitivo del CO2 in Svizzera è per ora impossibile. È dapprima necessaria un’analisi dettagliata e sistematica del sottosuolo, indica l’ASIR. L’associazione di categoria intravvede comunque la possibilità, tra 10 o 20 anni, di sequestrare il gas in acquiferi salini elvetici situati tra gli 800 e i 2500 metri di profondità. Nell’attesa, si guarda verso il nord dell’Europa.
“Vogliamo essere attori della transizione energetica”.
Daniel Baillifard, direttore inceneritore di Monthey
La Norvegia, che già da fine anni Novanta sequestra del CO2 in vecchi giacimenti di gas naturale sotto il mare del Nord, ha annunciato di essere disposta ad accogliere il CO2 da altri Paesi dal 2024. La capacità di stoccaggio in mare è stimata a 70 miliardi di tonnellate, circa venti volti le emissioni annuali dell’Unione europea.
Secondo uno studio di fattibilità del Laboratorio della sostenibilità del Politecnico federale di Zurigo (sus.lab), il sistema più economico per trasportare il CO2 dei rifiuti svizzeri fino in Norvegia sarebbe attraverso una rete di oleodotti. Un’opportunità, che lo stabilimento di Monthey ha letteralmente a portata di mano.
“A poche centinaia di metri c’è la vecchia raffineria di Tamoil, chiusa nel 2015. E soprattutto c’è lo sbocco dell’oleodotto del Rodano, oramai inutilizzato”, spiega Daniel Baillifard. Lungo 242 km, l’oleodotto collega il Vallese al porto di Genova.
Dalla città italiana, il CO2 svizzero verrebbe trasportato verso nord via nave. “Potremmo diventare un hub per la raccolta del CO2 in Svizzera in vista di un’esportazione”, afferma il direttore di Satom.
Entro fine anno, sono previsti incontri tra Satom e gli uffici federali dell’ambiente e dell’energia, il Politecnico di Zurigo e il proprietario dell’oleodotto, l’italiana ENI.
-> Breve animazione che illustra il trasporto via nave e l’immagazzinamento in fondo al mare del CO2.
Una sfida politica, tecnologia e finanziaria
La Confederazione ha già annunciato il suo sostegno, sottolineando che la cattura e lo stoccaggio di emissioni di CO2 svolgeranno un ruolo importante nel raggiungimento degli obiettivi climatici.
Per concretizzare il suo progetto, Daniel Baillifard deve però superare diversi ostacoli. In primo luogo, a livello politico. “Ci vogliono basi legali e accordi internazionali per regolare la cattura e il trasporto di CO2, la cui esportazione è al momento vietata”, spiega.
Poi c’è l’aspetto tecnologico. Progetti pilota simili sono stati lanciati in Norvegia, Irlanda e Nuova Zelanda e nel 2017, in Svizzera, è entrato in funzione il primo impianto industriale al mondo in grado di sottrarre e sfruttare il CO2 presente nell’atmosfera. Ma ciononostante, la tecnologia “non è ancora matura”, ritiene il direttore di Satom. “Prevediamo di investire 40 milioni di franchi. Non ci possiamo sbagliare, abbiamo bisogno di certezze”.
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Infine, ma non da ultimo, c’è il discorso economico. Il prezzo di trasporto e immagazzinamento di una tonnellata di CO2 è attualmente stimato a 340 franchi, troppo per garantire la sostenibilità finanziaria del processo. “Potrebbero partecipare anche i cementifici e l’industria chimica. Più stabilimenti si collegheranno alla rete del CO2 e più il prezzo scenderà”, pronostica Baillifard.
Rischio per l’ecosistema marino
Catturare il CO2 su vasta scala è indispensabile per raggiungere la neutralità climatica, sostiene Bastien Girod, presidente dell’ASIR e deputato ecologista nel parlamento svizzero.
Oltre alla riduzione dei consumi, all’aumentodell’efficienza energetica e allo sviluppo delle rinnovabili, è necessario creare dei serbatoi naturali e tecnici di carbonio, sostiene il partito dei Verdi, il quale vorrebbe un bilancio netto di emissioni pari a zero già nel 2040.
“Una fuga di CO2 nel mare metterebbe a repentaglio l’ecosistema marino”.
Georg Klingler, Greenpeace Svizzera
Più scettico è invece Georg Klingler di Greenpeace Svizzera, intervistato dalla RTS. “Non è ancora stato dimostrato che il CO2 che pompiamo in questi strati geologici ci resti per davvero. Non possiamo escludere delle fughe. Una fuga di CO2 nel mare metterebbe a repentaglio l’ecosistema marino”, avverte.
In generale, l’associazione ambientalista ritiene che questa tecnologia sia troppo energivora e costosa. Col rischio, sottolinea, che venga utilizzata come scusa per continuare a bruciare carbone, petrolio e gas.
Daniel Baillifard è consapevole che il suo progetto di cattura del CO2 non incita a ridurre il ricorso alle fonti fossili. “Mi dà fastidio fare il gioco dell’industria fossile. Ma dobbiamo essere realistici: la svolta non arriverà domani. Catturando e sequestrando il CO2 possiamo però accelerare la transizione”.
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