Se Maometto va alla montagna
Quando si parla di migranti e profughi, il pensiero corre soprattutto alle aree urbane. Ma i fenomeni migratori riguardano anche le regioni alpine. E qui, in contesti spesso segnati da difficoltà economiche e demografiche, la presenza straniera può anche aprire nuove prospettive di sviluppo.
Al di là di luoghi comuni e dalle idealizzazioni, le Alpi non sono mai state un luogo chiuso e separato dal mondo circostante. Durante tutta la sua storia, l’arco alpino è stato attraversato da correnti migratorie.
Fin dall’Ottocento le località caratterizzate da un forte sviluppo turistico hanno attirato manodopera proveniente da altre valli alpine, ma anche da regioni esterne. Negli ultimi decenni anche regioni più marginali hanno registrato un aumento della popolazione straniera.
In particolare nelle Alpi italiane e francesi, segnate da forti fenomeni di spopolamento, ma anche altrove, i vuoti lasciati dalla popolazione autoctona sono stati parzialmente riempiti da lavoratrici e lavoratori immigrati.
A queste mutazioni demografiche si è aggiunta in anni recenti la presenza di richiedenti asilo, «montanari per forza» allontanati dalle aree urbane e alloggiati temporaneamente in strutture situate in aree alpine.
«Solo in Italia ci sono oltre 350’000 stranieri che vivono nell’arco alpino, senza contare i profughi che in montagna non ci sono venuti volontariamente», osserva Andrea Membretti, sociologo all’Università di Pavia. «Nella sua componente lavorativa, la presenza straniera nelle Alpi non è un fenomeno nuovo, ma per molti versi rimane ancora poco conosciuto.»
Opportunità di sviluppo
Andrea Membretti è fra i promotori di un seminarioCollegamento esterno dedicato all’immigrazione straniera nelle Alpi tenutosi di recente nel centro di vacanze e formazione di SalecinaCollegamento esterno a Maloja (Grigioni), che ha riunito ricercatori, rappresentanti di ONG e giornalisti provenienti da Austria, Italia e Svizzera.
Stranieri nelle Alpi
Nell’arco alpino ci sono in media 94,7 residenti stranieri ogni mille abitanti (dati del 2013). La situazione varia però molto nelle diverse regioni alpine. I tassi più bassi di popolazione straniera si registrano nelle aree alpine della Slovenia (41,3 stranieri residenti su 1000 abitanti) e della Francia (62,3). I tassi più alti si trovano invece nel Liechtenstein (335) e in Svizzera (203,6).
Paragonando le medie nazionali a quelle delle aree alpine, si constata che mentre in Germania e Austria la media nazionale è molto più alta di quella delle Alpi, in Italia la presenza di stranieri nelle Alpi è maggiore rispetto a quella complessiva nel territorio nazionale. Data la particolare struttura territoriale della sua economia e le sue forme specifiche di urbanizzazione, l’Italia è particolarmente confrontata con il fenomeno di «nuovi montanari» che occupano spazi vuoti lasciati dalla popolazione locale.
Fonte: Rapporto della Convenzione delle Alpi sulle trasformazioni demografiche nell’arco alpino, 2015
Scopo dell’incontro era scambiare informazioni sulla presenza di migranti e profughi nelle Alpi nei vari contesti nazionali e creare un rete internazionale che studi le realtà migratorie nelle zone montane e diffonda le «buone pratiche» di accoglienza e integrazione esistenti.
La domanda di fondo era se la presenza straniera e in particolare la necessità di organizzare l’accoglienza per i richiedenti asilo possano rappresentare, al di là delle diffidenze e dei timori, un’opportunità di sviluppo per aree confrontate con forti problemi economici e demografici.
«Potenzialmente le terre alte, almeno in alcuni contesti, hanno notevoli risorse a disposizione, in termini di spazio, di immobili non utilizzati, di possibilità di recupero di specificità culturali nell’ambito per esempio dell’agricoltura di montagna, della selvicoltura, dei mestieri tradizionali», rileva Membretti.
La realtà alpina è però molto variegata. Alcune regioni alpine sono confrontate in misura molto maggiore con l’abbandono delle terre alte rispetto ad altre. Il tessuto economico e sociale delle località turistiche non è paragonabile a quello delle aree periferiche con forti problemi strutturali. Anche le politiche di accoglienza e il ruolo delle cooperative e associazioni che operano in questo ambito differisce molto a seconda del contesto nazionale. Non esistono modelli applicabili ovunque.
La montagna per forza
Il sociologo è tuttavia convinto che la presenza straniera possa aiutare a rivitalizzare alcuni territori montani che sono in crisi e che possa essere uno stimolo anche all’innovazione culturale, purché sia accompagnata da politiche che mirino a favorire un approccio integrativo e che non usino semplicemente la montagna come strumento di isolamento sociale dei richiedenti asilo.
«Spesso si pensa alle Alpi come territorio piuttosto impermeabile e diffidente verso la presenza straniera. Vi sono però numerosi esempi di ‘buone pratiche’, che parlano di comunità capaci di reinventarsi e di creare sviluppo tramite l’accoglienza di rifugiati o, in passato, permettendo a stranieri di accedere a professioni tradizionali abbandonate dalla popolazione locale», nota ancora Membretti.
D’altro canto occorre tener presente che i richiedenti asilo generalmente non vogliono andare in montagna. La loro meta sono piuttosto le aree urbane nel nord dell’Europa. Se finiscono in regioni alpine è perché vi sono trasferiti contro la loro volontà, per periodi più o meno lunghi.
«È evidente che di fronte a questa situazione di esilio occorre uno sforzo particolare per trasformare la costrizione in una risorsa, sia per le comunità che ospitano, sia per gli stranieri che si trovano lì», ammette il sociologo. «Se la logica è quella della ‘discarica’ sociale, del trasferimento dei problemi dalla città alla periferia, come purtroppo spesso avviene, allora si rischia di generare solo situazioni di conflitto.»
Buone pratiche
Gli esempi di progetti di accoglienza riusciti, pur tra mille difficoltà e ostacoli, non mancano. È il caso di Pettinengo, un comune di circa 1500 abitanti a 800 metri di altitudine nel Biellese. Fino al 2000 a Pettinengo c’era una fabbrica di maglieria intima che dava lavoro a 600 persone. Poi la fabbrica ha chiuso i battenti, scompaginando il tessuto economico del paese.
Nel 2014 l’associazione PacefuturoCollegamento esterno, dopo una prima esperienza di accoglienza temporanea nel 2011, ha aperto un Centro di accoglienza straordinaria (CAS) per profughi in una villa ottocentesca ristrutturata qualche anno prima. Oggi il centro ospita un centinaio di persone. «All’inizio la maggioranza della popolazione non era favorevole», ricorda l’ingegnere Andrea Trivero, uno dei responsabili del progetto. «Per superare le diffidenze ci siamo perciò basati su tre principi fondamentali: prima di tutto la comunità locale deve essere coinvolta fin dall’inizio nel progetto, cosa che spesso, almeno in Italia, non avviene. L’attività e i servizi del centro devono inoltre essere rivolti a tutti, ai profughi e anche alla popolazione locale. E infine tutti i finanziamenti statali devono essere utilizzati esclusivamente per l’accoglienza.»
Con un lavoro paziente, il centro di accoglienza è riuscito a radicarsi nel tessuto sociale ed economico locale, valorizzando le conoscenze e le esperienze sia dei profughi sia della popolazione locale. Nell’ambito del progetto sono state sviluppate per esempio collaborazioni con laboratori locali di tessitura, è stato avviato un laboratorio di apicoltura e sono stati riattati 15 chilometri di sentieri.
Nel progetto lavorano oggi circa trenta persone, di cui 15 dipendenti, tutti di Pettinengo. Oggi mese Pacefuturo distribuisce nel paese oltre 50’000 euro tra stipendi, vitto e affitti in relazione ai servizi svolti a favore dei richiedenti asilo. «Ormai siamo l’azienda più importante del paese, se posso usare questo termine», conclude Trivero. «I risultati ci stanno dando ragione.»
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