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«Ueli Steck ha reso possibile l’impossibile»

Nato a Langnau (nel canton Berna) il 4 ottobre 1976, Ueli Steck è morto il 30 aprile 2017 in Nepal dove sarà sepolto secondo il volere della famiglia. RDB/SI/Kurt Reichenbach

«Era molto di più di una macchina. Era una persona gentile, coi piedi per terra e piuttosto introversa»: giornalista e alpinista, Billi Bierling rende omaggio all’amico Ueli Steck, morto domenica ai piedi dell’Everest.

Incontrai per la prima volta Ueli nel 2007 e da allora imparai a conoscerlo abbastanza bene, anche grazie al lavoro che svolgo per l’ex giornalista Elizabeth Hawley e il suo blog – l’Himalayan DatabaseCollegamento esterno – che censisce le spedizioni sulle montagne più alte del mondo.

Mi piaceva la sua modestia e il fatto che malgrado le imprese straordinarie che aveva compiuto restasse coi piedi per terra. Non era mai arrogante. D’altronde basta dare un’occhiata al curriculum vitae pubblicato sul suo sitoCollegamento esterno per rendersene conto. Professione “carpentiere”, si legge, prima di scoprire la lista dei suoi incredibili successi da alpinista.

Era sempre un piacere incontrarlo a Kathmandu e interrogarlo sui suoi nuovi record per l’Himalayan Database. A volte mi capitava anche di intervistarlo come giornalista, in particolare per swissinfo.ch. Si prendeva sempre il tempo necessario per chiacchierare, anche se non rimaneva mai a Katmandu per più di 24 ore.

La giornalista e alpinista Billi Bierling. Richard Bull

Ricordo l’incidente con gli Sherpa nel 2013. All’epoca ero al campo base dell’Everest e, ovviamente, ricevetti una telefonata che non aspettavo di sicuro con impazienza da parte di Dale Bechtel, capo della redazione inglese di swissinfo.ch. La richiesta era semplice: potevo intervistare Ueli? Non volevo disturbare Ueli per questo, perché oltre ad essere un buon “soggetto” per un articolo, era un amico. In fondo però sono una giornalista e decisi così di andare a trovarlo.  

All’inizio mi disse di non voler parlare coi media, ma poi la sera venne al nostro accampamento e mi disse che di me si fidava ed era disposto a rilasciarmi un’intervista. Lo apprezzai molto e dalla conversazione emerse quanto fosse sconvolto dagli eventi.

L’etichetta “Swiss Machine”

Una cosa che Ueli non apprezzava particolarmente era il soprannome “Swiss Machine”. Era l’etichetta che gli avevano attribuito, ma lui non si era mai ritrovato in questa descrizione. Oggi leggere “Swiss Machine” su tutti i media mi rende dunque un po’ triste. Ueli era molto di più di una macchina. Era una persona gentile, coi piedi per terra e piuttosto introversa.

Sappiamo tutti che Ueli era straordinario, non ho dunque bisogno di ricordarlo. Mi sento però fortunata di averlo conosciuto di persona e di godere della sua fiducia. Ricordo quando tornò dalla parete sud dell’Annapurna 1: le voci critiche si fecero sentire fin da subito. Stavo facendo trekking nel Khumbu quando ricevetti un’email da un giornalista che stava cercando di gettare fango sull’ascesa di Ueli.

Mi stupì molto che così poco tempo dopo l’impressionante scalata, la gente stava già cercando di danneggiarlo. Gli mandai un messaggio per avvertirlo e rispose semplicemente: «Grazie. È geniale avere amici come te». Mi rattrista che ancora oggi c’è chi dubita dell’ascensione dell’Annapurna 1. Ueli era il solo a sapere se arrivò davvero in cima. Io ed Elizabeth Hawley gli abbiamo sempre creduto, poiché eravamo convinte che fosse capace di portare a termine simili imprese. Credo che molti dubbi sorsero perché la gente non pensava che un’ascesa di questo tipo fosse fattibile, ma per Ueli lo era. Rese possibile l’impossibile.

Il capitolo dell’Annapurna

Domenica, quando mi è giunta notizia del tragico incidente, stavo traducendo il suo ultimo libro, al quale lavoro da ormai due mesi. Io e Ueli eravamo così entusiasti che uno dei suoi libri fosse finalmente pubblicato in inglese.

Da due mesi vivo e respiro Ueli. Vorrei condividere un estratto del capitolo sulla parete sud dell’Annapurna, che ho riletto più volte dopo la notizia dell’incidente. Forse queste parole possono aiutarci a capire meglio da dove veniva Ueli.

«Ero completamente staccato dal mondo. Non c’era nient’altro oltre alla scalata. Nessuna meta, nessun futuro, nessun passato. Solo l’arrampicata, qui e ora. Un colpo di piccozza dopo l’altro. Un passo dopo l’altro. Vedevo solo la mia piccozza, come entrava più o meno in profondità nella neve o nel ghiaccio. Il mio campo visivo era ristretto. Guardavo il mondo come attraverso un tunnel. Ero lì in mezzo a quella gigantesca parete con un equipaggiamento limitato. Mi sentivo leggero, ma anche molto esposto. Sapevo che il minimo errore significava una morte sicura. Ma non avevo paura di fare errori. Mi davo degli ordini e guidavo quella persona che stava scalando la parete sud dell’Annapurna. Se fosse caduta, non avrei avuto l’impressione di essere io».

Ricordo quella volta che gli chiesi come era possibile non avere paura di scalare pareti così gigantesche senza corda e lui mi rispose: «Arrampicarsi è come salire le scale. Non mi aspetto mai di scivolare e cadere. E tu?». È proprio così che Ueli vedeva l’alpinismo, come salire le scale. Ma sfortunatamente domenica questi scalini gli sono stati fatali. È una grande perdita per il mondo dell’alpinismo; una grande perdita per amici e famigliari, ed evidentemente, una perdita enorme per la moglie Nicole. I miei pensieri sono rivolti a loro. Ricorderò sempre Ueli come un grande alpinista, un buon amico e un’ispirazione per molte persone. Malgrado il suo fervore per le ascese rapide, non ha mai perso l’amore e la passione per le montagne. 

Traduzione dall’inglese, Stefania Summermatter

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