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Perché l’ampliamento della base dei Paesi donatori per il clima non ha avuto successo alla COP29?

Laetitia Pettinotti

Le nazioni più povere che riceveranno 300 miliardi di dollari all'anno in finanziamenti per il clima, come deciso alla COP29, dicono che questa cifra non è sufficiente. La proposta della Svizzera di aumentare l’importo estendendo la base di Paesi donatori non ha avuto seguito. Laetitia Pettinotti, ricercatrice del think tank ODI Global, spiega come si è arrivati a questo punto.

Dopo tesi negoziati a Baku, in Azerbaigian, domenica è stato adottato il nuovo obiettivo di finanziamento per il clima, che fa parte di un più ampio e vago invito a tutti gli attori a incrementare i finanziamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo, fino a raggiungere almeno 1’300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. 

Tuttavia, 300 miliardi di dollari all’anno (270 miliardi di franchi) entro il 2035 sono pochi rispetto alle esigenze dei Paesi in via di sviluppo. Superano a malapena l’importo che i Paesi industrializzati avrebbero fornito in uno scenario di “business as usual” (si pensi all’inflazione e a un migliore utilizzo dei finanziamenti pubblico-privati). 

Sul tavolo dei negoziati c’erano molte questioni: a quanto sarebbe dovuto ammontare il nuovo obiettivo, quanto avrebbe dovuto essere il denaro pubblico o privato, per quale tipo di azione climatica (mitigazione, adattamento, perdite e danni), per quanti anni e quale avrebbe dovuto essere il processo di monitoraggio? 

Status quo per i contributi per il clima dai Paesi in via di sviluppo 

Uno degli aspetti critici che ha suscitato tensioni e ha avuto un impatto diretto sulla cifra finale è stata la questione di chi avrebbe dovuto pagare per questo nuovo obiettivo. 

Storicamente, i Paesi industrializzati hanno l’obbligo di contribuire ai finanziamenti per il clima nei Paesi in via di sviluppo, in riconoscimento della loro responsabilità preponderante nel cambiamento climatico. Tuttavia, l’elenco dei Paesi considerati industrializzati non ha visto nuove aggiunte da quando è stato stilato nel 1992, sebbene il mondo sia cambiato da allora. 

Dopo un lungo tira e molla, il testo adottato stabilisce che “i Paesi industrializzati devono prendere l’iniziativa” nel raggiungimento dell’obiettivo dei 300 miliardi di dollari. Esso mantiene la natura volontaria dei contributi finanziari da parte Paesi in via di sviluppo, senza l’obbligo di riferire. In altre parole, lo status quo per i Paesi in via di sviluppo. 

>> Leggi: Le ong contestano la “giusta quota” che la Svizzera paga per il clima 

Questo è però avvenuto sullo sfondo di un annuncio fatto all’inizio della COP29, quando la Cina, per la prima volta, ha dichiarato ufficialmente che dal 2016 ha fornito 24,5 miliardi di dollari di sostegno finanziario per il clima nei Paesi in via di sviluppo. Inoltre, la Cina ha indicato la sua volontà di continuare a farlo, ma su base volontaria.

“La politica interna degli Stati Uniti sembra continuare a plasmare il contesto della governance climatica globale”.

In passato, altri Paesi elencati come “in via di sviluppo” nel regime attuale si sono fatti avanti impegnandosi a finanziare i fondi multilaterali per il clima. Tra questi ci sono la Colombia, il Qatar, il Sudafrica e la Corea del Sud. 

Tuttavia, la Cina, in quanto Stato con molte emissioni e a reddito medio-alto, è stata sollecitata ad assumere l’impegno formale di contribuire ai finanziamenti per il clima, in quello che sarebbe stato un passaggio dalla volontarietà all’obbligatorietà. 

Trovare un testo che riflettesse la solidarietà tra i Paesi in via di sviluppo senza cambiare il loro status e senza perdere l’idoneità a ricevere i finanziamenti per il clima è sempre stato un compito arduo. Nel documento sono state fornite rassicurazioni sul fatto che i contributi aggiuntivi dei Paesi in via di sviluppo non avrebbero influito sul loro sviluppo o sullo statuto di Stati beneficiari. 

Alla fine, ciò non si è rivelato sufficiente e nessun Paese in via di sviluppo ha accettato formalmente di contribuire all’obiettivo. 

Soglie di reddito e di emissioni 

I Paesi industrializzati avevano chiesto un ampliamento della base degli Stati donatori fin dall’inizio del processo negoziale, durato tre anni. 

Gli Stati Uniti non hanno fatto mistero di voler includere ufficialmente la Cina. L’Unione Europea si è astenuta dal fare nomi, ma ha sostenuto l’espansione con la giustificazione implicita che un maggior numero di contribuenti avrebbe ottenuto una cifra più alta per l’obiettivo. 

La Svizzera e il Canada, pur non menzionando esplicitamente alcun Paese, hanno chiesto di fissare soglie specifiche di reddito e di emissioni, al di sopra delle quali uno Stato avrebbe dovuto iniziare a contribuire al nuovo obiettivo di finanziamento del clima. L’idea è che molti Paesi in via di sviluppo hanno livelli di emissioni e di reddito pari a quelli dei Paesi industrializzati che hanno l’obbligo di fornire dei contributi climatici. 

>> Leggi: Perché la Svizzera voleva includere Russia e Cina tra i Paesi che pagano per la crisi climatica

Questa idea è stata espressa in termini scomodi durante una conferenza stampa alla COP, quando un giornalista dei Paesi industrializzati ha chiesto ai rappresentanti delle coalizioni dei Paesi in via di sviluppo: “Cosa posso dire al pubblico nel mio Paese quando vengono chiesti più soldi per i Paesi in via di sviluppo, mentre alcuni di questi stanno comprando squadre di calcio e catene alberghiere di lusso?”. 

L’assunto non dichiarato era che i Paesi industrializzati sarebbero stati in grado di sostenere internamente la richiesta di maggiori finanziamenti, se avessero potuto dimostrare che anche alcuni Paesi in via di sviluppo stanno facendo la loro parte. 

Conseguenze della politica statunitense 

Quindi, dove ci porta tutto questo? 

Questo specifico aspetto dei negoziati ha messo in evidenza che alcuni Paesi in via di sviluppo contribuiscono ai finanziamenti per il clima. Alcuni lo fanno da anni, altri in modo intermittente, con la speranza di cambiare la percezione che ci siano flussi unidirezionali dai Paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo e di ottenere un maggiore riconoscimento del loro spirito di solidarietà.  

I negoziati hanno anche spinto la Cina a dichiarare per la prima volta l’importo dei finanziamenti che ha fornito e mobilitato a favore del clima 

Considerando che gli Stati Uniti si ritireranno probabilmente dall’Accordo di Parigi e forse dalla Convenzione sul clima, la base dei Paesi donatori ufficiali potrebbe ridursi nel prossimo futuro. Questa prospettiva ha sicuramente inciso sul modo in cui l’UE ha negoziato. 

Tale scenario ha forse anche influito sulla decisione della Cina e di altri Paesi in via di sviluppo di non contribuire formalmente al nuovo obiettivo. La politica interna degli Stati Uniti sembra continuare a plasmare il contesto della governance climatica globale.

A cura di Veronica de Vore

Le opinioni espresse in quest’articolo sono esclusivamente quelle dell’autrice e non rispecchiano necessariamente il punto di vista di SWI swissinfo.ch.

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