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Nuova precarietà: il virus insegna empatia alla scena artistica svizzera

Redazione Swissinfo

Come devono affrontare la crisi del coronavirus gli artisti svizzeri? Mettere semplicemente l'arte online non basta, dice il curatore Damian Christinger. La pandemia scuote le solide fondamenta su cui l'arte svizzera è cresciuta e richiede nuovi approcci di riflessione sullo spazio culturale globale.

Per la maggior parte di noi in Svizzera, questa è la prima crisi esistenziale diretta della nostra vita. Questo distingue Zurigo, Ginevra o Locarno da Kampala, Delhi, Caracas o Hong Kong.

Mentre i dibattiti sull’Antropocene, sul cambiamento climatico e sull’estinzione di specie animali, che hanno dominato il discorso artistico degli ultimi anni anche in questo Paese, hanno sempre fatto riferimento a un futuro imminente, il confronto con la pandemia avviene in un presente in continuo cambiamento.

Le strategie artistiche impiegate possono rimanere invariate: sguardo dalla periferia sul presunto centro, critica del potere e dell’impotenza, strategie locali su questioni globali.

Porträt Damian Christinger
Damian Christinger (*1975, Zurigo) ha studiato storia dell’arte globale e interculturalità. È stato cofondatore della galleria svizzera Christinger De Mayo e ora lavora come curatore indipendente, autore e docente in varie istituzioni. I suoi scritti spaziano su svariati temi transculturali e sull’Antropocene e pubblicato su argomenti diversi, come i paesaggi culturali di Singapore, la ricezione dell’Amazzonia nell’arte occidentale, le sfide dei musei svizzeri e Paulo Freire. Martin Stollenwerk

Come operatori culturali, abbiamo un piccolo vantaggio iniziale, perché siamo abituati a improvvisare e a farcela con poco. Pensavamo di essere abituati all’insicurezza e siamo sorpresi di scoprire che non è vero. Fino ad ora, la maggior parte di noi ha avuto un’adeguata fonte di finanziamento, o almeno l’opportunità, all’interno dell’economia dell’attenzione, di rivendicare per sé un pezzetto del campo dell’arte.

Naturalmente la maggior parte di noi viveva nella precarietà, dovevamo finanziare la nostra attività artistica con un lavoro per guadagnarci quel tanto che basta da vivere. La maggior parte di questi lavori ora sono in pericolo o non bastano più, mentre il reddito derivante dall’arte si ridurrà quasi a zero per un bel po’ di tempo. Questo pone tutte le scene artistiche di fronte a grandi sfide. L’attivismo che si è constatato nelle ultime settimane, soprattutto a livello digitale, è psicologicamente comprensibile, ma non è molto efficace.

Condizioni che erano normali per gli artisti in Messico, Nigeria o Romania sono improvvisamente concepibili qui da noi. Ma là c’è una grande solidarietà all’interno delle diverse scene, i progetti di coloro che non hanno molto successo sono sostenuti dagli artisti arrivati, quel poco che c’è a disposizione viene condiviso tra tutti. In Svizzera finora c’è stato quasi abbastanza per tutti. Quasi abbastanza soldi e mezzi per mantenere l’illusione di avere diritto a un sostentamento artistico per se stessi.

In Svizzera, noi organizzatori di mostre e scrittori, artisti e mediatori abbiamo spesso presentato le utopie altrui: l’afro-futurismo, la lotta di classe latinoamericana o i progetti di solidarietà rumena, e abbiamo dimenticato e disimparato a sviluppare le nostre proprie utopie. Le distopie come metodi di analisi sono interessanti e importanti, ma improvvisamente irrompono nel presente. La pandemia rivela così anche la necessità di pensare il nuovo e il diverso per noi e non solo cercarlo in luoghi lontani, anche per tenerlo in tal modo lontano da noi.

In un periodo in cui il “distanziamento fisico” diventa un dovere, la coesione sociale dovrebbe essere al centro della produzione culturale: la solidarietà diventa anche una questione di sopravvivenza artistica. Una seconda occasione, per così dire, nata dalla necessità, dal rinnovato tentativo di portare la realtà globale nella nostra “amena ma stretta valle” (per citare Il ragno neroCollegamento esterno di Jeremias Gotthelf), per sviluppare nuovi approcci con l’aiuto di un immaginario comune ed empatico, che per la vita culturale in Svizzera – dopo la pandemia – sarà decisivo. In mezzo all’affaccendamento virtuale, spiccano alcuni esempi promettenti di modelli di successo anche a lungo termine.

Viral – das online Literaturfestival in Zeiten der QuarantäneCollegamento esterno” (Viral – il festival della letteratura online in tempi di quarantena), è stato fondato proprio all’inizio del confinamento da Melanie Katz, Kathrin Bach e Donald Blum, che lo hanno davvero materializzato dal nulla. Le letture si svolgono in diretta e possono essere seguite via Facebook, un finanziamento solidale fa sì che gli scrittori non solo lavorino per la tanto citata “esposizione mediatica”, ma guadagnino anche un po’ di soldi.

La somma può essere trascurabile, come segno di azione comune in un momento in cui tutti gli altri buttano in rete “contenuti” gratis per rimanere in qualche modo visibili (come se si notasse la nostra assenza per tre mesi); questo approccio si distingue e cerca di compensare la cancellazione dei festival letterari dell’inizio dell’estate. Le letture si sono svolte con notevole anticipo non solo nei salotti svizzero-tedeschi, ma anche in Germania, Austria, Bosnia o Francia.

Swiss artist collective Louise Guerra
“Chapter 17” (2016) del collettivo artistico svizzero Louise Guerra, alla mostra Swiss Art Awards 2016 alla Fiera di Basilea. L’individuo non è più al centro dell’azione. © Keystone / Georgios Kefalas

La pandemia richiede nuovi approcci di riflessione sullo spazio culturale globale. Le strategie locali summenzionate su questioni globali non sono solo essenziali sul piano virologico, ma sono anche una chiave di lettura di come noi, come scena artistica e culturale, possiamo o dobbiamo affrontare la pandemia e le sue conseguenze.

Una riflessione comune sul collettivo e sull’individuale, sul globale e sul locale, di uno spazio di empatia (e l’arte, come la pandemia, è una vera e propria macchina d’empatia) potrebbe essere una delle chiavi per uscire dalla paralisi provocata dall’interventismo nazionalista.

(Traduzione dal tedesco: Sonia Fenazzi)

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