“Le mie opere, come la natura, vivono di vita propria”
Ci è voluto parecchio tempo prima che il mondo dell’arte riscoprisse Vivian Suter, artista che quest’anno è stata insignita del Prix Meret Oppenheim, il premio svizzero più importante in questo campo. Quando Suter lasciò la Svizzera all’inizio degli anni ’80, molti di coloro che lavoravano nel panorama artistico dell’epoca non riuscirono a capire perché e presto si dimenticarono di lei. Oggi, però, la sua coraggiosa decisione sembra quanto mai appropriata per una vita da vera artista.
Molti artisti e artiste oggi sembrano più preoccupati del cambiamento climatico che del mercato dell’arte, oppure vogliono combinare le due cose in un nuovo contesto, retto da condizioni sostenibili. La giovane generazione ha quindi cominciato a prendere a modello Vivian Suter, artista che ha trovato il modo di interagire rispettosamente con l’ambiente che la circonda, senza fare concessioni. Gli altri la considerano comunque un’ecofemminista forte e indipendente.
Negli scorsi decenni, l’artista svizzera, nata a Buenos Aires (Argentina) nel 1949 e che oggi vive alle pendici di un vulcano nella foresta pluviale intorno al lago Atitlán, in Guatemala, non aveva attirato grande interesse. Di recente, però, il prestigioso Art Institute of Chicago ha acquistato alcuni suoi quadri ed è stata invitata a partecipare alla documenta di Kassel. Finalmente è arrivato il suo momento. Non solo: il suo peculiare stile di vita è diventato una risorsa preziosa, la località remota dove ha scelto di vivere una curiosità. Curatori e curatrici hanno avuto l’impressione di scoprire un tesoro nascosto, quasi fosse una nuova specie di volatile ancora sconosciuta.
A partire dal 6 novembre, il Kunstmuseum di Lucerna opsita una retrospettiva sulle opere di Vivian Suter, comprensiva di conversazione pubblica tra l’artista e la curatrice Fanni Fetzer. La mostra resterà aperta fino al 13 febbraio 2022.
Sebbene il suo obiettivo principale fosse fare arte dal nulla, senza influenze esterne, i dipinti di Vivian Suter combinano la natura con diverse eredità come l’espressionismo statunitense, il realismo magico latino-americano e, chiaramente, anche qualche elemento ereditato dall’adorata madre, l’artista Elisabeth Wild (1922-2020).
L’intervista che segue è il risultato di una conversazione su Skype, lei dalla sua splendida casa nella giungla, io dal lago di Ginevra. Nel nostro inglese stentato, abbiamo raccolto immagini, fatti e aneddoti utili a ricostruire la vita e le opere di un’artista affascinante, che, quarant’anni fa, ha scelto di interagire con cani e piante anziché con i curatori svizzeri.
SWI swissinfo.ch: Come inizia a lavorare a un dipinto? Le capita mai di fare uno schizzo, prima? Quanto ci vuole ad arrivare al punto, ecc.?
Vivian Suter: Cerco di mantenere la maggiore apertura mentale possibile. Mi capita di fare degli schizzi, ma molto di rado e mai di proposito. Lavoro su più quadri allo stesso tempo, a volte anche molti insieme. Ma mi succede raramente di tornare a lavorare su un dipinto quando l’ho finito. Se mi sembra ci sia qualcosa che non va, cerco di lasciarlo lì e tornare a riesaminarlo in seguito.
Le capita di sorprendersi di fronte a quello che fa?
Sì, e mi piace molto lasciarmi sorprendere dai miei quadri. A volte vado avanti finché cala il buio, per cui devo scendere dalla montagna con la torcia e aspettare il giorno successivo per vedere cosa è venuto fuori.
Se il risultato la delude lo butta?
No, lo metto da parte e lascio passare del tempo. A volte, i dipinti che mi sembravano peggiori sono quelli che preferisco quando li rivedo, il giorno dopo.
Come ha fatto a trovare la sua strada nel panorama artistico degli anni Settanta, concettuale com’era?
Dipingevo quadri di varie dimensioni: in genere erano piuttosto grossi, cosa che mi ha garantito un discreto successo quando vivevo in Svizzera. Poi me ne sono andata, e mi è sembrato di avere ancora tanto da esplorare. Ho deciso di rimanere in Guatemala e di far nascere mio figlio qui. Più tardi ci ha raggiunti anche mia madre.
Questo cambiamento ha influito anche sulle mie opere. Non potevo continuare a dipingere come avevo fatto in Svizzera. La forma esteriore era molto importante, ma volevo concentrarmi più su quello che c’era dentro. Trasportare quel tipo di quadri, poi, era impegnativo, soprattutto dal punto di vista dell’imballaggio e della spedizione. Perciò ho iniziato a usare i materiali che trovavo qui, le tele e i colori che avevo sottomano, anche se devo sempre farmi arrivare qualcosa anche da fuori.
Tornare nel continente in cui è nata è stata una scelta importante. Lo ha fatto per andare alla ricerca di una libertà che a Basilea non riusciva a trovare?
Sì, esatto. Del mio lavoro non amavo la parte più legata alla socializzazione, andare alle inaugurazioni e cose così. Al mio arrivo in Guatemala non ebbi alcun successo, ci fu a malapena qualche mostra, ma non ho mai smesso di lavorare.
Negli anni Settanta, il movimento per il ritorno alla natura era condiviso da tanti altri artisti e artiste. Lei si è stabilita praticamente in uno studio-giardino circondato da alberi tropicali.
Quando mi sono trasferita nella foresta non ne sapevo niente. Volevo solo essere libera dalle influenze esterne. Volevo che tutto partisse da zero.
È cresciuta con una madre artista ed è diventata a sua volta un’artista, donna, che vive in Guatemala. Come è stato?
Quando ho tenuto una mostra delle mie opere presso la Galleria Diagramma di Milano, nel 1981, ricordo che c’erano pochissime donne. Ero una femminista, sì, ma non è mai stato un tema rilevante per me. Ora che vivo in un paese machista, però, ho cambiato idea!
Nei momenti più difficili ha mai avuto la sensazione che la società patriarcale non incoraggiasse a dovere le artiste?
No, perché io ho ricevuto incoraggiamenti in quel senso fin dalla tenera età. Sono nata in una famiglia di artiste. Già la mia bisnonna si occupava di arte, per cui sono cresciuta in un ambiente molto sensibile verso la materia. Mia madre è stata un modello per me. Ho tenuto la mia prima mostra a diciannove anni.
Allora perché ha finito per essere isolata?
Il mondo dell’arte svizzero mi ha tagliata fuori perché ho lasciato la Svizzera, non perché sono una donna. La mia partenza è stata presa davvero male. La gente non capiva perché me ne volessi andare, già che avevo avuto successo con la mia prima mostra individuale ancora molto giovane e via dicendo. Sei “fuori dai giochi”, così mi hanno detto. Secondo loro non avrei dovuto aspettarmi niente perché me ne ero andata, era stata una mia scelta. Volevo dimostrare che si sbagliavano, ma mi ci sono voluti più di trent’anni…
Guardando le sue opere ora, sembrano richiamare un’estetica anni Settanta: l’amore per la natura, i tessuti, i colori, gli hippie. Che rapporto aveva con il movimento hippie?
Mi sono sposata presto, a diciannove anni. In parte, forse, anche per andare via di casa. Ma né io né mio marito eravamo hippie.
E invece che influenza ha avuto l’avanguardia latino-americana, il realismo magico?
Ho conosciuto artisti molto interessanti in Messico, in Guatemala, in Argentina e a San Paolo. Forse il realismo magico dell’arte e della letteratura latino-americane mi ha influenzato più di quanto pensi, anche perché mia nonna mi raccontava tante storie.
Ha vissuto un momento molto importante con la retrospettiva Vivian Suter: El bosque interior (2018) dell’Art Institute of Chicago, che ha segnato le prime acquisizioni di sue opere da parte di un museo.
Mi ha fatto molto piacere sapere che il team dedicato ai restauri dell’Art Institute si era interessato alle mie opere. Ne hanno comprate diverse, diciassette, mi pare, e abbiamo messo in piedi una mostra. Prima, però, le hanno esaminate ed è stato bello sapere che le hanno accettate.
Da artista che vive in mezzo alla foresta, che effetto fa ritrovarsi in un museo?
È stato soddisfacente vedere le mie opere in un contesto diverso da quello in cui sono state realizzate. Spesso mi è stato chiesto perché non facessi dei quadri più piccoli, per poterli vendere più facilmente, ma io ho sempre pensato: “No, io dipingo così e mi piace lavorare in grande. Prima o poi qualche museo li comprerà”. Era un pensiero fugace, quasi un sogno, ma adesso si sta realizzando.
Le è mai pesato non godere dell’apprezzamento che ora le è sempre più dovuto?
Sì, certo. Mi ci è voluta molta forza di volontà per continuare a lavorare, pur non ricevendo alcun riconoscimento per ciò che facevo, se non in forma di critica. E devo dire che le critiche che mi sono state mosse non sono state di grande ispirazione. Ma sono andata avanti lo stesso.
Non è uno spirito nomade?
Una volta lo ero, da giovane. Ho viaggiato molto, in tutto il mondo. Sono stata in Africa, in Asia, in Australia. Mi piaceva conoscere la gente del luogo e stare in mezzo alla natura. Ha anche influito sulla mia arte, tanto che qualche volta mi sono trovata a lavorare lì dov’ero. Poi, durante un viaggio in America settentrionale e centrale ho scoperto il lago Atitlán…
Sua madre (Elisabeth Wild, 1922-2020) è stata un’artista di rilievo, con cui ha avuto un rapporto molto intenso fino alla sua morte, lo scorso anno. Potrebbe raccontarci di quando è nata la sua fascinazione per l’arte e del ruolo svolto da sua madre in questo senso?
Sono cresciuta con mia madre che dipingeva, per cui non ricordo un solo momento della mia infanzia senza arte. Abbiamo vissuto in Argentina finché ho compiuto tredici anni, poi ci siamo trasferiti in Svizzera, dove ho terminato gli studi. Ho frequentato la scuola d’arte di Basilea. Seguivo i corsi di pittura, ma ho studiato anche scultura, colore, scrittura e cose del genere.
Che effetto faceva essere la figlia di un’artista?
Non ho mai subito pressioni. Ma io e mia madre non parlavamo molto di quello che facevo. All’inizio le mostravo le mie opere, poi ho smesso perché era sempre molto critica. Però guardavo sempre ciò che faceva lei. Parlavamo soprattutto di quello.
Immagino che per sua mamma essere un’artista fosse una bella sfida. Aveva un tocco simile a quello di Fernand Léger, direi. Le sue opere sembrano invece molto più selvagge. Pensa che il suo stile si sia sviluppato in opposizione a quella di sua madre?
Era una donna molto forte, ostinata e testarda. Adorava vedermi così libera. Lei non avrebbe mai potuto, era troppo controllata. Qualche volta ci è capitato di esibire le nostre opere insieme, col risultato che si percepiva una forte vicinanza e insieme un modo completamente diverso di avvicinarsi all’arte.
Sarei curiosa di sapere come sia stata la sua infanzia e se per caso ha ancora qualcuno dei suoi primi disegni.
Mia madre li ha conservati, ma non sono niente di speciale. Mentre la guardavo lavorare mi toccava farle da modella, ed era una cosa che odiavo. Ma non avrei mai pensato di fare altro.
Mio padre voleva tenermi lontano dall’arte, perché non credeva che avrei potuto guadagnarmici da vivere, perciò ho dovuto frequentare un istituto commerciale. Alla fine, però, l’ho convinto a lasciarmi frequentare la scuola d’arte di Basilea.
Può raccontarmi del rapporto tra i suoi genitori?
Mia madre veniva da una famiglia ebrea austriaca. Negli anni di ascesa del nazismo, i suoi genitori decisero di fuggire in America Latina. Entrambi erano grandi amanti delle arti e della cultura.
Dal momento che per arrivare nei Paesi Bassi avrebbero dovuto attraversare l’Europa, si dissero che non potevano partire senza vedere Venezia. Perciò decisero di passare qualche giorno lì, prima di prendere l’ultimo mercantile per Buenos Aires. Riuscirono a sfuggire per un soffio alle atrocità che straziarono l’Europa. Arrivarono in Argentina nel 1939.
“Mi piace molto lasciarmi sorprendere dai miei quadri.”
Mia madre dovette lavorare per supportare la famiglia. Mio nonno aveva un problema agli occhi e per un certo periodo perse la vista. Lei però entrò a far parte del Círculo de Bellas Artes in Argentina. Prese lezioni private da un vecchio pittore viennese e da un pittore tedesco. Più avanti, quando ero ancora molto piccola, mi portava alle sue lezioni di ceramica.
Le sue prime mostre si tennero all’Istituto di belle arti di Buenos Aires. I suoi genitori la aiutarono e la incoraggiarono a perseguire quella strada. Aveva 16 anni quando iniziò a lavorare come bambinaia per ricche famiglie argentine, seguendo quello che aveva imparato a fare a Vienna. Aveva lavorato anche in Jugoslavia, dove aveva appreso i principi della scuola Montessori.
Come conobbe suo padre?
Mio padre era un industriale svizzero con una fabbrica [in Argentina]. Se la cavava piuttosto bene ma, quando Perón iniziò a nazionalizzare le imprese a metà anni Cinquanta, decise di fare fagotto e tornare in Svizzera. Era il 1962 e io avevo tredici anni.
I miei genitori si sono conosciuti quando mia mamma è andata a presentare i suoi disegni a stampa nello stabilimento di mio padre. Lui era molto più vecchio di lei e aveva già dei figli. Uno aveva la stessa età di mia madre, l’altro era più grande. Mia madre si è ritrovata a metà tra due generazioni. È stato strano e difficile per lei. La comunicazione tra loro non era delle migliori. Io ero più vicina a mia madre, sebbene mio padre fosse molto affettuoso. Lui però aveva il suo mondo…
L’intervista è stata pubblicata per intero su“Swiss Grand Prix Kunst / Prix Meret Oppenheim 2021” (Art Bulletin, luglio-agosto 2021), in cui i vincitori del premio hanno offerto ulteriori approfondimenti sul proprio lavoro. La pubblicazione può essere ordinata gratuitamente scrivendo a swissart@bak.admin.ch.
Altri sviluppi
L’uguaglianza al museo dovrà aspettare
Traduzione dall’inglese: Camilla Pieretti
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