Meret Oppenheim: una donna con il Surrealismo nel sangue
Il Museo d’arte di Aarau presenta una retrospettiva unica delle opere di esponenti svizzeri del Surrealismo, di cui Meret Oppenheim è senza dubbio l’icona. Diventata celebre grazie alla sua tazza di pelliccia, seppe ritagliarsi il suo spazio nella scena artistica del suo tempo.
Una tazza da caffè rivestita di pelliccia: solo l’idea di appoggiare le labbra al suo bordo sfilacciato o assaporare lo zucchero impiastricciato sul cucchiaino peloso suscita un certo disagio – nel migliore dei casi pizzica. Decine e decine di storici dell’arte si sono soffermati sull’opera del 1936, la più famosa di Meret Oppenheim, individuandovi addirittura delle connotazioni sessuali (cosa che ha assai divertito l’artista).
La tazza della Oppenheim era un atto di poesia, come propugnava l’alfiere parigino del Surrealismo, André Breton: la creazione artistica doveva essere passionale, di un’ambiguità spiazzante, ma bella, come «il fortuito accostamento di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo anatomico». Il Surrealismo voleva affrancarsi dalla ragione e far emergere ciò che rimaneva imbrigliato dietro la visione razionale del mondo: i sogni, l’assurdo, il fantastico. E nessuno meglio di Meret Oppenheim incarnava questa visione.
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La regina del surrealismo
“Aveva uno spirito che non doveva convertirsi al movimento: era una donna con il Surrealismo nel sangue”, afferma la storica dell’arte e curatrice della mostra Jacqueline Burckhardt, che da anni studia l’opera di Oppenheim. “E come tale venne accolta dalla comunità surrealista di Parigi: una figura dai contorni mutevoli.”
Nemica della maternità e dei suoi angeli sterminatori
Nel 1933, a vent’anni, Oppenheim si trasferì a Parigi con l’intento dichiarato di diventare un’artista. Nella Ville Lumière venne introdotta nell’ambiente surrealista dagli scultori svizzeri Alberto Giacometti e Hans Arp. Poco dopo il suo arrivo nella capitale francese, il fotografo Man Ray Meret la ritrasse nuda, con mani e braccia imbrattate d’inchiostro, accanto a un torchio da stampa. La tazza – l’oggetto che da allora la rappresenta in modo inscindibile – venne esposto già nel 1936 a New York e poi acquistato dal Museum of Modern Art. L’opera si trasformò rapidamente in uno degli emblemi più noti del Surrealismo, ma l’artista rimase nell’ombra, tanto che negli Stati Uniti si ritenne a lungo che fosse un uomo.
Probabilmente non avrebbe avuto niente in contrario: anticonformista per natura, rifiutava la suddivisione classica dei ruoli. A 18 anni dipinse “Würgengel”, il ritratto di una donna che sorregge un neonato sgozzato, dal cui collo sgorga sangue a fiotti. Come le tavole votive esposte nelle chiese cattoliche, l’opera doveva sortire il magico effetto di proteggerla da una gravidanza indesiderata, ossia dalle ossessionanti costrizioni cui una donna diventata madre doveva piegarsi. Dopo la rottura avvenuta negli anni Trenta, il pittore Max Ernst, con cui ebbe una breve relazione, così la descrisse: “Quella donna è un panino imbottito di marmo.” Può succedere che con un morso ti spacchi i denti.
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Meret Oppenheim in immagini
Il periodo dell’incrostazione
Verso la metà degli anni Trenta a Parigi si avvertivano chiaramente i segnali della guerra imminente. E l’avventura dell‘avanguardia venne strozzata dal Nazionalsocialismo. Per la Oppenheim iniziò un periodo di crisi, e gli episodi depressivi che l’avevano sempre accompagnata si aggravarono. Le poche opere di quegli anni raffigurano donne di pietra, donne come armadilli supini. Addirittura nel quadro dalla forza travolgente “Sonne, Mond und Sterne” le gambe della figura in primo piano si stagliano impietrite, frantumate, verso il cielo. “Per qualcuno così attento ai moti del proprio subconscio gli stati d’animo sono determinanti e si riflettono nelle opere come qualcosa di sovraindividuale”, precisa Burckhardt.
La mostra “Surrealismo SvizzeraCollegamento esterno” sarà esposta ad Aarau fino al 2 gennaio 2019 e dal 10 febbraio al 16 giugno 2019 presso il Museo d’arte della Svizzera italiana (MASI) di Lugano.
La curatrice della mostra argoviese continua: “Basilea le andava stretta. Le mancava la libertà di cui aveva goduto a Parigi. Qui pochi capivano questa donna sola dal nome ebraico, che viveva in condizioni dubbie facendo un’arte assai poco comprensibile.” Trovò persone con idee affini nel Gruppo 33, di cui facevano parte Walter Kurt Wiemken o Irène Zurkinden, grazie ai quali a Parigi aveva conosciuto Giacometti e Arp.
Un buffetto sulle guance di Breton: superata la crisi
Nel 1950 tornò per la prima volta a Parigi dalla fine della guerra – ma la cerchia dei surrealisti non esercitò più lo stesso fascino di un tempo su di lei. “I rituali del gruppo, quell’autocelebrazione reciproca le davano ai nervi”, afferma Burckhardt. Oppenheim espose nuovamente il proprio lavoro a Parigi, ma interiormente si distanziò molto dal movimento. Nel 1954 sognò di dare all’inarrivabile Breton un buffetto sulle guance, con condiscendenza, mentre tutti gli altri gli si prostravano ai piedi. Superata la crisi, Oppenheim affittò un atelier a Berna.
Oppenheim è considerata una delle massime esponenti del Surrealismo, ma fu sempre piuttosto a disagio con l’idea di appartenere a una determinata corrente. Burckhardt: “Prendeva ciò che la ispirava, ma non voleva emulare nessuno. Non cercava di inserirsi in una cerchia, né di far parte di un gruppo.” Non aveva vincoli di stile e creava ogni opera come fosse la prima: “Ogni opera d’arte ha la sua forma.” Anche per questo non ebbe successo sul piano finanziario: in vita Meret Oppenheim non riuscì a commercializzare il proprio nome.
Arrivata solo negli anni Settanta
Dopo essersi unita in matrimonio con Wolfgang La Roche Meret Oppenheim si spostò a Berna dove continuò a lavorare nella scena artistica. Le furono ad esempio commissionati i costumi per la messa in scena della pièce di teatro di Picasso “Il desiderio preso per la coda”, diretta da Daniel Spoerri. Negli anni Settanta alcuni curatori come Harald Szeemann, Arnold Rüdlinger, Franz Meyer, Hans Christoph e Tavelun André Kamber iniziarono ad interessarsi maggiormente della sua produzione artistica. Era giunto il suo momento, afferma Burckhardt: “Gli uomini cominciarono a rivolgere la loro attenzione anche a donne che funzionavano non solo a letto o nelle faccende domestiche.” Nel 1970 ironizzò sul culto per la sua opera più nota: per anni aveva respinto le richieste di replicare la sua famosa tazza – ma a coloro che la riducevano a questa singola opera avrebbe confezionato un misero souvenir con il dipinto “Andenken an das Pelzfrühstück” del 1970. Meret Oppenheim aveva finalmente spiccato il volo.
Traduzione dal tedesco: Lorena Mombelli
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