Beni culturali: figli contesi
Le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno riversato sui mercati dell’arte occidentali tutta una serie d’oggetti e reperti trafugati illegalmente.
Il parlamento elvetico ha deciso martedì di ratificare l’aggiornamento della convenzione dell’Aia per la salvaguardia dei beni culturali in caso di conflitto armato
«Sapevano quello che cercavano. Non hanno preso le copie o gli oggetti di scarso valore». È lapidaria Lamia Al-Gailani mentre descrive il sacco del museo di Baghdad, avvenuto cinque giorni dopo la caduta del regime di Saddam Houssein.
Le depredazioni di cui è stato vittima il patrimonio artistico ed archeologico iracheno hanno riportato alla ribalta la problematica del traffico illecito d’oggetti antichi, un traffico organizzato che dal tombarolo al collezionista funziona secondo un’unica modalità: il guadagno.
In ottobre la Svizzera aveva ratificato, dopo anni di tentennamenti, la convenzione Unesco del 1970, una convenzione che regola il commercio di opere d’arte e reperti archeologici. La legge che dovrebbe contrastare i traffici illegali è pronta, anche se la sua entrata in vigore, inizialmente prevista per la prima metà del 2004, è slittata al 2005.
Ora il parlamento ha deciso all’unanimità di ratificare il secondo protocollo aggiuntivo alla convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. La convenzione e il primo protocollo erano già stati ratificati nel 1962.
A differenza di quanto avvenuto per la convenzione Unesco del 1970, il secondo protocollo aggiuntivo alla convenzione dell’Aia, che colma le lacune venute alla luce durante la guerra dei Balcani, non richiede un adattamento delle leggi elvetiche.
Non solo Iraq
Il caso dell’Iraq, dove stando alla testimonianza dell’ambasciatore italiano Mario Bondioli Osio, responsabile del ministero della cultura iracheno, «bande organizzate di tombaroli hanno lasciato alle loro spalle un paesaggio lunare ormai inutilizzabile per gli studi scientifici», è sotto gli occhi di tutti.
Già all’inizio del conflitto, la comunità internazionale ha cercato di correre ai ripari, chiedendo ai possibili interessati di evitare l’acquisto di opere d’arte provenienti dall’Iraq. La Svizzera è stata il primo paese a diramare un comunicato ufficiale in tal senso.
Ma i problemi che riguardano il commercio di beni culturali vanno aldilà delle tragiche vicende irachene. L’illegalità è dietro l’angolo: per i trafficanti solo droga e armi hanno un peso maggiore delle opere d’arte.
La Svizzera e la Gran Bretagna, due delle principali piazze mondiali per la compravendita di antichità, hanno firmato solo recentemente la convenzione dell’Unesco del 1970. In febbraio a Ginevra, che con il suo porto franco ha a lungo offerto un riparo discreto a traffici poco trasparenti, i due paesi hanno organizzato un convegno internazionale intitolato «not for sale – non in vendita».
Dialogare per risolvere
«Convegni come questo sono fondamentali» dichiara Cornelia Isler – Kerényi, archeologa e membro del comitato Unesco svizzero. «Se non si lavora sull’opinione pubblica non si muove nulla e l’opinione pubblica si forma proprio in queste occasioni, quando tutti gl’interessati s’incontrano per discutere e i media riferiscono».
La discussione è più che mai necessaria. Le esigenze dei paesi di provenienza delle merci, degli archeologi, dei mercanti, dei collezionisti sono diverse. Creare un consenso, sul quale basare l’elaborazione di nuove leggi, è difficile e le varie parti in causa si passano la palla delle responsabilità.
Certo è che siamo di fronte ad una mentalità che cambia, ad un’etica che si evolve. Se mezzo secolo fa rientrava nella normalità che un museo acquisisse dei reperti di cui non conosceva la provenienza, oggi, secondo David Streiff, direttore dell’Ufficio federale della cultura, «c’è un nuovo spirito, una nuova presa di coscienza».
Una legge per oggi
Questo mutato atteggiamento etico è alla base anche della decisione elvetica di ratificare la convenzione dell’Unesco e di dotarsi di una nuova legislatura, che impone l’obbligo di dichiarare alla dogana i beni culturali e di certificarne la provenienza.
Ma che fare con le opere trafugate in passato? «Le leggi non sono mai retroattive», spiega Cornelia Isler – Kerényi, «ma ciò non vuol dire che in determinate circostanze si debba escludere la restituzione delle opere d’arte. In Gran Bretagna, ad esempio, si fa un gran parlare dei marmi del Partenone. Restituirli o no? Nel frattempo ci si è resi conto che si possono trovare delle soluzioni intermedie, come gli scambi e i prestiti a lungo termine».
Specchio di valori morali e standard etici moderni, la legge è stata preceduta da un’evoluzione naturale del sistema. «La legge sul trasferimento dei beni culturali è appena nata», afferma Marc-André Renold, del Centro di diritto dell’arte di Ginevra, «ed è uno strumento indispensabile per prendere di mira le pecore nere. Fortunatamente le sue esigenze sono già soddisfatte dalla maggior parte dei commercianti, dei collezionisti e dei musei che lavorano in questo settore».
Tra pubblico e privato
Non sono tutti cattivi, quindi, gli attori del mercato dell’arte. Sentono però ancora il bisogno di difendersi. «Per favore», chiede James Ede, un noto commerciante inglese, «facciamo la distinzione tra commercio e traffico. Non prendetevela con me se gli iracheni hanno depredato il museo di Baghdad, l’ hanno fatto loro, non io».
George Ortiz, forse il più grande collezionista d’opere d’arte residente in Svizzera, è ancora più radicale e non ne vuol sapere di leggi che a suo dire imbrigliano il mercato. «Storicamente i musei nascono dalle collezioni private. Gli archeologi oggi negano la dimensione “arte” e considerano solo la dimensione “informazione”. Ma l’arte è un sogno, è un’emozione, è innamorarsi, insomma, è essenziale alla sopravvivenza dell’umanità».
Per quanto poetico, il discorso di Ortiz non convince l’archeologa Cornelia Isler – Kerényi che difende la necessità di un’archeologia istituzionale. «L’archeologia finanziata dai privati si orienterà necessariamente sui valori di mercato e andrà quindi alla ricerca di oggetti da vendere. Ma è attraverso i “rifiuti” che riusciamo a ricostruire la storia di una civiltà e questa ricostruzione è l’obiettivo dell’archeologia istituzionale».
In nome dei beni
Opere d’arte e reperti archeologici possono raccontare la storia di un popolo, possono aiutare a ridare un’identità culturale a chi l’ ha perduta, possono anche dimostrarsi un’eredità indesiderata, basti pensare ai giganteschi Buddha distrutti dai Talebani in Afghanistan.
In un mondo sempre più globalizzato e squilibrato nei rapporti tra Nord e Sud quale criterio scegliere come base per le discussioni sui beni culturali? Per Cornelia Isler – Kerényi bisognerebbe pensare a quest’ultimi come a figli adottivi.
«Non sono gli interessi dell’uno o dell’altro Stato a dover essere al centro dell’attenzione, ma i beni culturali stessi, così come nel caso di figli adottivi si giudica una situazione in base al bene dei bambini e non in base agli interessi dei genitori. Dovremmo sempre preoccuparci dei diritti dei beni culturali, non così per astrazione, ma perché spesso questi sono le ultime testimonianze di civiltà scomparse e rispettarli significa rispettare i diritti degli uomini del passato».
swissinfo, Doris Lucini, Ginevra
15.4.2003: l’Ufficio federale della cultura invita a non acquistare beni iracheni dalla provenienza incerta.
28.5.2003: la Svizzera dirama un’ordinanza federale per facilitare la restituzione di beni culturali iracheni rubati od esportati illegalmente dopo il 1990
20.6.2003: il parlamento vara la legge sul trasferimento internazionale di beni culturali; entrata in vigore prevista l’1.1.2005
3.10.2003: la Svizzera ratifica la convenzione Unesco del 1970
All’elaborazione della legge svizzera sul trasferimento internazionale dei beni culturali ha partecipato anche il Centro di diritto dell’arte di Ginevra.
Nato nel 1991 dall’esigenza di cercare delle risposte alle innumerevoli questioni giuridiche ancora irrisolte in merito al commercio di opere d’arte, il Centro si occupa in particolare di favorire la ricerca scientifica in materia e di organizzare dei convegni.
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