Berlinale, l’eroico “Turno di notte” di un’infermeria svizzera

L'incalzante dramma ospedaliero della regista svizzera Petra Volpe ha debuttato al Festival internazionale del cinema di Berlino. In un’intervista con SWI swissinfo.ch, la regista riflette sul concetto di eroismo e di come lo rappresenta nei suoi film.
Un’infermiera attraversa con passo sicuro i corridoi di un ospedale, nel cuore della notte. Durante il suo frenetico turno di notte deve prendersi cura di pazienti di ogni tipo: anziani in stato confusionale, uomini facoltosi del reparto privato che impartiscono ordini con impazienza, stranieri preoccupati e senza familiari al loro fianco, e uomini e donne che affrontano i loro ultimi momenti di vita.
Questo ritmo serrato di azioni ed eventi è rappresentato con maestria da Petra Volpe in “Late Shift” (2025) (“Heldin”, Eroina, nel titolo originale in tedesco), con l’attrice tedesca Leonie Benesch nel ruolo della protagonista, l’infermiera Floria. Il filo conduttore di questo suo nuovo film, carico di tensione e accurato nei dettagli, è proprio Floria, che dimostra la sua professionalità nell’affrontare una raffica continua di richieste ed esigenze impossibili da gestire.
“Ho vissuto con un’infermeria, faceva sembrare banale quello che facevo io”, racconta la regista a SWI swissinfo.ch da Berlino, dove si è tenuta la prima mondiale del film nella sezione Special Gala del Berlinale il 17 febbraio.
“All’epoca mi raccontava esattamente quanto ci volesse per lavare una persona anziana o cambiarle il pannolone. Era chiaro che non fosse davvero possibile quantificare il tempo necessario per questo tipo di compito. Ogni atto di cura richiede tutta una serie di interazioni che sfuggono a una misurazione precisa: parlare, rassicurare, confortare”, aggiunge.
Non a caso, in uno dei momenti più toccanti di “Late Shift” vediamo un’infermiera calmare un’anziana paziente in preda al panico e alla confusione dopo aver ricevuto una telefonata da una figlia di cui non riconosce la voce. Le parole rassicuranti non bastano, così l’infermiera inizia a cantare. La paziente, avendo riconosciuto la melodia, si unisce a lei. È questo gesto a rendere sereno il loro scambio, per ragioni che non sono del tutto razionali. Si instaura una connessione che va oltre le parole.
“Per me l’eroismo di questa professione sta proprio nel fatto che l’infermiera si siede e canta, anche se non ne ha il tempo”, sottolinea Volpe. “Sa benissimo che facendo così rallenterà il suo turno ancora di più, ed è questa la mia definizione di eroismo: rimanere gentili e premurosi nonostante la pressione a cui si è sottoposti”.

Una regista con un messaggio chiaro
Volpe è conosciuta soprattutto per il suo lungometraggio “The Divine Order” (2017), un successo al botteghino che racconta la lotta delle suffragette svizzere per il diritto di voto nel 1971, oltre al film “Traumland” (2018) e alla serie TV “Freiden” (2020).
La regista svizzera considera il cinema una forza di cambiamento, e non ha paura di affrontare questioni sociali di rilievo nelle sue opere. Nonostante la sua conoscenza di lunga data del mondo infermieristico, sono passati anni prima che Volpe decidesse di realizzare un film incentrato su questa professione.
A rendere più concreto un insieme nebuloso di idee è stata la lettura di “Our Profession Is Not the Problem – It’s the Circumstances”, libro di saggistica dell’infermiera tedesca Madeline Calvelage, che in seguito ha collaborato a “Late Shift”come consulente.
“Dopo aver letto il libro di Madeline, che mi ha fatto battere il cuore come se fosse un thriller, ho capito che il film doveva svolgersi nell’arco di un singolo turno”, racconta Volpe. “Ho continuato a leggere altri libri. Poi ho affiancato il personale infermieristico nel loro lavoro, li ho osservati all’opera e abbiamo parlato dei loro problemi. Ho cercato di capire come si sentono ogni giorno e di quale supporto aggiuntivo avrebbero bisogno”, spiega.
Portare lo spettatore dentro il reparto
“In un certo senso, [il film] potrebbe essere un’opera teatrale – una con molte stanze”, dice Volpe con entusiasmo quando parliamo della teatralità intrinseca di “Late Shift”. In una giornata piena di interviste, la nostra conversazione segue scambi più brevi e intensi con gli altri giornalisti presenti al festival. Il film è stato accolto calorosamente a Berlino, e la regista sembra perfettamente a suo agio nel discutere le peculiarità della sua opera.
Il team di Volpe ha ricreato il reparto ospedaliero del film su due piani abbandonati di un ospedale a Kilchberg, sulle rive del lago di Zurigo. “Era completamente vuoto, tutte le attrezzature sono state inviate in Ucraina”, racconta Volpe. “Si parlava persino di demolirlo, cosa che ha sconvolto la nostra consulente Madeline – è stata infermiera in Germania, dove le condizioni non sono altrettanto buone. Come si vede [nel film], l’ospedale è in perfette condizioni”.
Volpe e il suo team hanno trasformato l’ospedale in uno spazio fortemente scenografico, dominato dai continui spostamenti di Floria da una stanza all’altra. “Avevamo totale libertà di azione. Abbiamo potuto dipingere il pavimento di bianco, ad esempio, per farlo assomigliare a una pista di pattinaggio su ghiaccio”, spiega la regista. “Abbiamo immaginato Floria come un’atleta, quasi una pattinatrice di velocità. Questi elementi servono a rendere la pellicola visivamente accattivante, visto che il film è destinato al grande schermo”.

L’equilibrio precario del turno di notte
Come in una rappresentazione teatrale, il turno di notte in ospedale è un delicato esercizio di equilibrio: basta un solo imprevisto a stravolgere l’intera produzione. Grazie ai lunghi piani sequenza di Volpe, che ci permettono di seguire la protagonista da un’interazione all’altra, percepiamo istintivamente che per Floria un solo contrattempo – un suo errore, ma anche una semplice svista – andrà ad aggravare ogni nuovo problema che incontra, mandando velocemente in frantumi il ritmo del suo turno – con conseguenze potenzialmente disastrose.
La grande varietà di compiti di cui si occupa l’infermiera nel film riflette l’ammirazione di Volpe per questa professione. Parte del fascino per lo spettatore sta proprio nell’osservare la precisione con cui esegue ogni gesto.
“Gli infermieri e le infermiere sono dei professionisti incredibili, oggi più che mai. Oltre alle competenze di cura, devono anche avere conoscenze solide di informatica e medicina”, osserva Volpe. “È un mestiere estremamente complesso, e poi, oltre a tutto ciò, c’è l’aspetto umano. Entrano in una camera e ci trovano un mondo intero: parenti, amici, vita e morte. Alcuni pazienti vanno aiutati a navigare le proprie preoccupazioni, rassicurati, fatti sorridere. Ognuno è diverso.”

Impersonificare un’infermiera svizzera
Al centro del film c’è l’interpretazione potente, ma sobria, di Leonie Benesch nei panni di Floria. Sia Volpe che Benesch hanno capito che non c’è bisogno di eccessivo pathos: la forza della storia emerge da sola. “[Io e Leonie] abbiamo affrontato il personaggio in modo poco psicologico. Eravamo d’accordo sul fatto che Floria non è una vittima, ama il suo lavoro ed è piena di energia. È un’atleta. Questo è stato il nostro punto di partenza”, spiega Volpe.
“Molti degli infermieri e delle infermiere con cui ho parlato sono proprio così”, continua Volpe, attingendo ancora una volta alla sua ricerca sul campo. “Amano il lavoro e la loro professione. Amano muoversi e risolvere problemi, e anche un po’ di pressione. Ma tutti hanno un limite, un punto di rottura, e [nella nostra società] raggiungerlo sta diventando la norma. Per questo abbiamo immaginato il personaggio così: sempre in movimento”.
Il film, generalmente privo di informazioni contestuali, si chiude con una scheda che descrive la drammatica situazione della professione infermieristica in Svizzera e nel mondo, e rivela un dato sorprendente: entro il 2030 si prevede una carenza di 13 milioni di infermieri e infermiere a livello globale.
Dopo l’ottima accoglienza ricevuta alla Berlinale, Volpe è convinta che in Svizzera il film possa contribuire a portare all’attenzione del pubblico gli importanti temi sollevati nella pellicola.
“Questo film è la mia dichiarazione d’amore [per la professione]. Vorrei solo che gli infermieri e le infermiere si sentissero visti e apprezzati. Ma, naturalmente, voglio anche provocare. Dobbiamo discutere apertamente di come migliorare questa situazione critica. È nell’interesse di tutti. Dopotutto, siamo tutti potenziali pazienti”, conclude la regista.
Articolo a cura di Virginie Mangin & Eduardo Simantob/sb

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