Betty Brenner rompe il suo silenzio sull’Olocausto
Betty Brenner è fuggita nel 1968 dall'allora Cecoslovacchia in Svizzera, Paese dove ha incontrato la solidarietà della popolazione. Ha trovato raramente il coraggio di parlare della sua prima fuga, come ebrea dal nazismo.
Dicembre 2019, una prima chiacchierata. Brenner, 82 anni, siede sul divano che si trova al centro del salotto. Il colore blu degli occhi e la loro vivacità non passano inosservati. Non è stato facile trovare una data per l’appuntamento: la sua agenda è sempre piena.
Vive da 51 anni a Zofingen. “È una bella cittadina. Qui sono davvero felice”. Rimane un attimo in silenzio e poi aggiunge: “Da qualche parte ci si deve pur sentire a casa”. Non voleva certo lasciare la Cecoslovacchia, andare via da Brno. Ma quando nell’agosto del 1968 i carrarmati russi hanno soffocato sul nascere la “Primavera di Praga”, con il marito Ernst e il figlio Tomas è salita in macchina e ha oltrepassato il confine con l’Austria.
All’epoca della Guerra fredda, la solidarietà era grande, anche in Svizzera, nei confronti di coloro che fuggivano dagli Stati del blocco orientale. “Siamo stati molto bene accolti qui”, dice Brenner. Se qualcuno voleva sapere della sua vita al di là della Cortina di ferro, lei raccontava della quotidianità sotto il comunismo e dell’invasione delle truppe sovietiche. Della prima fuga nei Monti Vepor, in Slovacchia, non ha invece mai parlato.
Ed oggi? Betty Brenner lo fa malvolentieri. “Mi guardo dal parlarne”. Ma poi si decide, anche se sa che verrà sopraffatta dalle emozioni. La domanda, più impellente di un tempo, è: come se la sarebbe cavata se fosse stata al posto dei genitori? Ora “è una persona anziana”, e questo interrogativo la occupa di più, “molto di più”.
A un certo punto dice: “A volte tremo tutta quando penso a ciò che hanno vissuto i miei genitori”. All’epoca era toppo piccola per comprendere perché erano dovuti fuggire. E quando un estraneo le chiese chi fosse, lei non seppe rispondere. Sua madre le aveva insegnato che non si poteva mentire.
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Ma la madre le aveva anche detto che ora aveva un altro cognome, “ci chiamiamo Lacković”. C’era la neve, Betty aveva sette anni e quel giorno, mentre si divertiva con lo slittino, allo sconosciuto aveva risposto: “Non so come mi chiamo. Devo chiedere alla mamma”. Il papà quando aveva sentito di questo incontro decise sui due piedi: “Dobbiamo andare avanti”.
Lo shock, lo spavento sono arrivati molto più tardi, quando era abbastanza grande da capire come sarebbero potute andare le cose. Ricordi come questi le rimangono bloccati in gola. Sono immagini che la occupano a lungo dopo averne parlato con qualcuno.
“Che cosa ha fatto il vecchio ebreo?”
Betty Brenner mi mostra una foto: estate 1944, la famiglia si trova davanti a casa, a Muráň. L’immagine ritrae Klara e Ladislav Engel coi due figli piccoli, in mezzo la nonna Františka Engel, con una lunga gonna abbottonata fino al collo. Alžbeta porta scarpe di vernice, Ervin ha le braccia dritte e schiacciate sui fianchi.
È una foto di addio; di lì a poco la nonna avrebbe raggiunto la figlia a Budapest. Il padre pensava che lì sarebbe stata più al sicuro che in Slovacchia. Ladislav Engel, che spesso d’istinto prendeva le decisioni giuste, che sembrava quasi riuscisse a riconoscere in anticipo le situazioni di pericolo, che sapeva quando la famiglia doveva cambiare aria, è stato preso dai rimorsi alla notizia della morte della madre. Pochi mesi dopo il suo arrivo a Budapest, Františka Engel è stata seppellita viva dai membri del Partito delle Croci Frecciate, i fascisti ungheresi.
Ladislav Engel era una personalità in vista. Commerciante, intelligente, prudente: “È grazie a lui se siamo sopravvissuti”. Il 18 ottobre, quando le truppe tedesche avevano quasi raggiunto Muráň, “circa un’ottantina di persone” si sono riunite nella casa di famiglia perché volevano sapere che cosa bisognava fare. Ascoltarono il suo consiglio: “Dobbiamo andarcene”.
Le prime ore della fuga: una carrozza stracolma di valigie e, in cima, una persona anziana, il nonno. Il padre programma in anticipo quale sarebbe stata la prossima meta. Ad esempio, verso Hronec, un ricordo che a Betty Brenner costa molta fatica. A Hronec devono separarsi dal nonno: “Allora, era vecchio quanto lo sono io oggi”.
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Era quasi sordo e cieco. Quando se ne sono andati, fuggendo a piedi e con un carro trainato da due buoi, il nonno è stato tradito. Il parroco cattolico di Hronec chiese ai soldati, che lo avevano trascinato fuori di casa, cosa avesse fatto di male quel vecchio ebreo. E un abitante del paese disse: “È un uomo molto devoto” che lui avrebbe accolto volontieri in casa sua. 77 anni più tardi, Betty Brenner racconta con difficoltà di questo episodio: “Non erano antisemiti, erano semplicemente delle persone”. Il nonno si salvò.
Un misero pesce al giorno
Dicembre 1944, l’ultima stazione. Un nascondiglio nel bosco, “bunker”, così Betty Brenner indica il rifugio fatto di bastoni di legno e carta catramata e “mimetizzato con foglie”. Con loro c’erano anche altri fuggiaschi ebrei: una famiglia di tre persone, una coppia e “il signor Smetana”.
Di notte era possibile scaldarsi e cucinare con una piccola stufa. “Di giorno non la si poteva accendere a causa del fumo”. Un uomo dei dintorni, Ondrej, portava loro viveri: pane, latte e a volte cibo in scatola. Non molto, ma a sufficienza per sopravvivere. A un certo punto Ondrej è scomparso nel nulla.
Una volta, nel cuore della notte, un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nel nascondiglio. “Molte persone del posto sapevano che nelle montagne si nascondevano donne, uomini e bambini ebrei. E così a volte succedevano delle rapine”. Quel gruppo era alla ricerca di oggetti di valore e si sono portati via orologi, l’anello d’oro della madre e dei contanti.
Con il tempo, i generi alimentari hanno iniziato a scarseggiare. Ad esempio, si trovavano lenticchie, fagioli essiccati e qualche patata ammuffita. “Mangiavamo zuppa, cucinata dopo aver fatto sciogliere la neve, ma anche tutto ciò che la foresta aveva da offrirci: foglie, radici, bacche secche”. Betty Brenner si ricorda ancora quando la madre aprì l’ultima scatola di sardine sott’olio. “Ogni bambino riceveva un misero pesciolino al giorno”.
I genitori? “Hanno mangiato neve”. Anche se sapeva quanto fosse pericoloso, un giorno Ladislav Engel è andato in cerca di cibo nella foresta. Il signor Smetana lo ha accompagnato. C’era molta neve, il riverbero del sole li accecava, il padre non vedeva quasi nulla. E così, il signor Smetana è andato avanti.
Quando è tornato al rifugio, il padre non ha proferito parola e si è sdraiato sul pavimento, rimanendo a lungo in silenzio. Betty Brenner dice di non averlo mai visto in uno stato d’animo simile, così angosciato e disperato. Nel bosco, il signor Smetana era finito sopra una mina.
Il 30 marzo 1945 hanno sentito una voce. Era quella di Maria, la moglie di Ondrej. Lei sapeva che si erano nascosti nella foresta, ma non conosceva esattamente il luogo in cui si trovava il rifugio. Maria comunicò loro che la guerra era finita. Ondrej era stato denunciato ed era stato internato in un campo di lavoro in Germania. I soldati della Wehrmacht avevano dato fuoco alla loro casa.
Klara Engel pesava circa 35 chilogrammi, il padre 39. I genitori non riuscivano quasi più a camminare. Inciampavano e cadevano continuamente a terra. Un’unità rumena dell’esercito russo aveva liberato i dintorni. I soldati cucinarono il gulasch per i fuggiaschi: “doveva essere un giorno di festa”. Ma un corpo denutrito ha bisogno di tempo per abituarsi al cibo e così i genitori hanno avuto una diarrea talmente forte che sono quasi morti.
In seguito, Klara e Ladislav Engel non hanno raccontato a nessuno della loro fuga. È stata l’unica famiglia di Muráň a sopravvivere. La gente li salutava dicendo loro: “Ah, siete tornati!” e “Dovete essere grati di essere ancora in vita”. A volte queste frasi sembravano quasi un rimprovero.
Anche la seconda fuga non è stata semplice. “Siamo arrivati qui con nulla e abbiamo dovuto ricominciare tutto da zero”. Ma le immagini che non l’abbandonano, le scene che vede nei suoi sogni, “oggi, molto più spesso che in passato”, sono quelle della prima fuga. Di recente, Betty Brenner ha di nuovo sognato del 13 dicembre 1944, il giorno in cui si sono rifugiati nel nascondiglio. Era ammalata e nel sogno si è rivista sulle spalle del padre. Ha visto Ladislav Engel mentre porta la figlia di sette anni mentre cammina nella foresta.
Prima che la memoria diventi storia. I sopravvissuti all’Olocausto in Svizzera oggi. 15 ritratti. Pubblicati da Limmat-Verlag, 2022.Collegamento esterno
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