Donne al comando e animali in libertà nello zoo umano di Ramon Zürcher
Il nuovo film di Ramon Zürcher, Il passero nel camino (Der Spatz im Kamin), arriva questa settimana nei cinema svizzeri. È il capitolo finale della "trilogia animale", dove spazi ristretti danno vita a complesse scacchiere psicologiche. Zürcher racconta a SWI come riesce a creare storie universali partendo da opere così intime.
Ramon Zürcher appartiene a una specie rara nel panorama cinematografico svizzero. Il suo rapporto professionale con il gemello Silvan, come regista e produttore rispettivamente, segue il modello dei fratelli Joel ed Ethan Coen. Da uomo queer, poi, la sua fissazione per la prospettiva femminile ricorda quella del regista spagnolo Pedro Almodóvar. E infine l’abilità nell’ambientare le sue storie in spazi angusti, come un piccolo appartamento o una cucina minuscola, porta le relazioni rappresentate a una profondità di stampo bergmaniano.
Ma questi riferimenti sono utili solo ai critici, Zürcher non ne ha bisogno e non ne usa nemmeno uno quando racconta i suoi film. Lo abbiamo incontrato il mese scorso al Locarno Film Festival, dove ha presentato il suo Il passero nel camino, l’unico film svizzero in gara nel concorso principale. L’impressione è stata quella di un ragazzo riservato della campagna svizzera, che è andato a studiare cinema a Berlino. Ha vissuto nella capitale tedesca per 17 anni (ora è tornato in Svizzera e vive a Bienne) e lì ha sviluppato uno stile autoriale che è “molto personale, ma non privato”, come ha raccontato a SWI swissinfo.ch.
Il passero nel camino è il terzo capitolo della cosiddetta “trilogia animale” dei fratelli Zürcher, dopo Il piccolo gatto strano (2013) e La ragazza e il ragno (2021), entrambi girati a Berlino. Il piccolo gatto strano rappresenta il culmine degli studi cinematografici dei fratelli Zürcher: girato con un budget limitato, si svolge quasi interamente in una piccola cucina in una casa della capitale tedesca. In La ragazza e il ragno lo spazio include due piccoli appartamenti, e infine con Il passero nel camino si passa a una grande casa di campagna in Svizzera.
La staticità nel movimento
Il passero nel camino si può vedere come film a sé stante, ma mette meno a disagio e risulta meno strano e spiazzante se considerato insieme alle altre pellicole della trilogia. “I tre film sono un po’ come pezzi da camera ‘a porte chiuse’, imparentati tra loro come fratelli. Li abbiamo concepiti giocando con la staticità e il movimento”, racconta il regista. “Il primo film è più vicino alla staticità. È come un ritratto, si svolge in un unico luogo e non c’è sviluppo. C’è un po’ più di movimento nel secondo, soprattutto perché racconta di una ragazza che si trasferisce in un nuovo appartamento. Questo terzo film invece parla di crescita e cambiamento, con un grande dinamismo che anima lo spazio, facendolo respirare”.
Nei primi due film la telecamera rimane vicina ai volti dei personaggi, senza mai ampliare il campo visivo. Solo in Il passero nel camino i fratelli Zürcher si spostano all’esterno, lasciando che parti di paesaggio si intromettano nella narrazione. Ma anche così lo scenario rimane strettamente legato agli stati d’animo e al carattere dei personaggi.
Ci sono sempre molte persone in movimento, così come animali domestici (gatti, cani, insetti e uccelli), che affollano lo spazio, e le relazioni tra loro non sono mai esplicite, vanno colte nel corso della storia. I dialoghi sono brevi, fugaci, e i personaggi si muovono come pedine su una scacchiera psicologica sempre tesa, dando vita a una costante atmosfera passivo-aggressiva che non risparmia neanche gli scambi più teneri.
Personale, ma non privato
Verrebbe da chiedersi se i fratelli Zürcher non si stiano vendicando per essere cresciuti in una famiglia disfunzionale, ma Ramon nega. “La mia famiglia non ha avuto gli stessi problemi o vissuto le stesse esperienze raccontate nel film”, afferma. “Ma tutti i personaggi e i temi trattati mi stanno molto a cuore. Anche un personaggio crudele come Karen [fulcro del conflitto familiare in Il passero nel camino] nasconde nel profondo una certa dolcezza e calore”.
Zürcher gioca con questa ambiguità, che dice di ammirare nel cinema asiatico contemporaneo. “I personaggi non sono mai solo strumenti per la trama, hanno sempre una profondità più complessa di così”, spiega. “Non potrei mai sviluppare un personaggio basandomi solo su un tratto da antagonista, come un mostro. Non lo trovo interessante”.
Il film ha ricevuto molti più apprezzamenti dalla critica straniera che da quella svizzera, che ha reagito in modo fortemente negativo a Locarno. Forse perché si toccano temi scomodi in un Paese che ha un atteggiamento molto difensivo riguardo alla psicoanalisi?
Zürcher dice di non averci mai riflettuto molto, ma riconosce che il pensiero ha una certa validità. “La Svizzera è diventata un Paese ricco solo negli ultimi 70 anni. In superficie sembra tutto risolto e che tutti stiano bene, ma in realtà ogni famiglia porta con sé un trauma intergenerazionale di qualche tipo”, afferma. “Per risolvere queste realtà psicologiche o interiori non bastano uno o due giorni, è un processo lungo”.
La società svizzera ha pochi problemi di tipo economico ed è abbastanza liberale, ma secondo Zürcher le questioni da risolvere sono ancora molte. Come uomo queer, ad esempio, sottolinea che non si sente mai completamente a suo agio.
“L’omosessualità è molto più accettata, normalizzata. Berlino è considerata una città molto aperta, come la maggior parte delle metropoli, ma c’è sempre un po’ di sospetto”, racconta. “Gli attacchi non sono plateali, ma piuttosto delle micro-aggressioni. È come se fossimo colpiti da un ago invece che da un coltello. Penso che la maggior parte delle persone queer abbia sviluppato uno strato di pelle in più per proteggersi dagli aghi”.
Un matriarcato patriarcale
L’occhio queer di Zürcher diventa più evidente nei suoi personaggi femminili. Gli uomini dei suoi film nel migliore dei casi sono appendici della costellazione familiare, e nel peggiore sciocche seccature. Le donne, al contrario, sono rappresentate come forti, con un ruolo che rispecchia quello del patriarca.
Il regista si dice d’accordo: “Il conflitto in una famiglia patriarcale lo conosciamo bene. Ma se è una donna a comandare diventa più complesso, perché la figura della madre non ha un’immagine antagonista. Quando gli elementi che associamo alle madri – amore, calore, cura eccetera – diventano tirannici, la dinamica familiare può diventare più crudele rispetto a quella con il ‘tipico’ padre”.
Una contraddizione che sembra giocare con la fissazione di Zürcher per la prospettiva femminile. “Ora che le donne sono più emancipate potremmo pensare che ci sia una trasformazione”, racconta. “Ma in realtà è solo un cambio di genere, le relazioni di potere sono le stesse”.
Un campo minato in cui Zürcher si muove con facilità. “Assumo spesso un punto di vista femminile, mi identifico spesso con le donne”, afferma. “Quando ho iniziato a guardare film ero sempre interessato a donne come Isabelle Huppert e Isabelle Adjani, belle e abissali. Sentivo, pensavo e vivevo i desideri dei personaggi femminili. Quando comincio a scrivere una sceneggiatura infatti parto sempre da una prospettiva femminile”.
Per Ramon lo sguardo femminile è la chiave d’accesso ai problemi familiari: la relazione più basilare inizia con il taglio del cordone ombelicale, “ma ci sarà sempre un cordone, uno invisibile”.
È probabilmente su questo punto che i film dei fratelli Zürcher assumono un tono più universale. Non è mai stata loro intenzione, dice Ramon, definire i loro film a livello locale. Per questo hanno scelto di utilizzare il tedesco standard invece del dialetto svizzero anche nell’ultimo film, nonostante sia ambientato in Svizzera.
“Il tedesco standard per me fa parte dell’identità svizzera. Leggiamo e scriviamo in questa lingua e, visto che la usiamo a scuola, suona neutrale”, aggiunge.”È una lingua con cui si può costruire un film perché ha qualcosa di universale”.
Siamo noi gli animali
Riunire i tre film in una “trilogia animale” con storie che esplorano ciò che Zürcher chiama “uno zoo umano psicologico” è un’ironia più che sottile. Ma lo scherzo è voluto. Zürcher dice di detestare i titoli troppo ovvi, che rivelano la trama in poche parole, come “La madre” o “La trasformazione”.
Per il regista spostare l’attenzione dal centro della trama a un elemento concreto ma marginale serve ad ampliare lo spazio, non solo fisicamente, ma anche in termini di significato e interpretazione. “In fondo, tutto è fauna”, dice, “e ‘trilogia animale’ significa che i film sono incentrati sugli esseri umani, che sono animali circondati da altri animali”.
Da ragazzo di campagna si potrebbe pensare che abbia un rapporto profondo e di lunga data con gli animali, visto che probabilmente ha vissuto a stretto contatto con loro. “Oh no, mai”, ride. “In famiglia avevamo diverse allergie, non abbiamo mai avuto cani o gatti. In giro c’erano solo le mucche dei vicini”.
Articolo a cura di Virginie Mangin/ds
Traduzione di Vittoria Vardanega
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