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«Fare cinema è un gioco da equilibristi»

Renato Berta, in un'immagine scattata nel 2007 in occasione delle Giornate cinematografiche di Soletta. Keystone

Il suo gusto naturale per la luce ha lasciato un'impronta indelebile nella nouvelle vague svizzera. A 68 anni, il direttore della fotografia ticinese Renato Berta ripercorre le tappe salienti della sua carriera e non risparmia qualche critica al cinema contemporaneo.

Coraggioso sperimentatore, Renato Berta ha esordito come cameramen negli anni Sessanta, a fianco della nuova generazione di cineasti svizzeri, per poi continuare la sua carriera in Francia con registi del calibro di Alain Resnais e Louis Malle.

Swissinfo.ch lo ha incontrato a margine della Mostra del cinema di Venezia, alla quale ha partecipato in qualità di membro della Giuria internazionale. Ma non solo. Il festival ha infatti presentato la versione restaurata di uno dei lavori di Renato Berta, il documentario Il bacio di Tosca (1984), del regista svizzero Daniel Schmid.

swissinfo.ch: Com’è nata la sua passione per il cinema?

Renato Berta: Credo che questa mia passione sia nata al Festival del film di Locarno, negli anni Sessanta. Fino ad allora per me il cinema era soltanto un’immagine sullo schermo e faticavo ad immaginare cosa ci stava dietro.

Oggi, con il digitale, il cinema si è molto democratizzato e ad ogni angolo si vedono persone con in mano una videocamera. All’epoca, invece, le cineprese erano un oggetto quasi esclusivo, aristocratico.

In questo senso il Festival di Locarno è stato per me una rivelazione. Ricordo ancora l’incontro con il brasiliano Glauber Rocha: era la prima volta che toccavo un cineasta con mano… Tra l’altro è stato proprio lui a consigliarmi di seguire una scuola di cinema.

Renato Berta

Quando si lavora con la fotografia, la cosa più importante non è cosa mettere in un’immagine, ma cosa lasciar fuori

swissinfo.ch: Quali caratteristiche deve avere un buon direttore di fotografia ?

R.B.: Bisogna essere un buon equilibrista. Lo stesso vale per tutti coloro che fanno cinema. La fotografia in fondo non esiste da sola, così come non esiste da solo un attore o un suono. Il cinema è un equilibrio molto fragile tra tutti gli elementi che lo compongono.

Quando si lavora con la fotografia, la cosa più importante non è cosa mettere in un’immagine, ma cosa lasciar fuori. È un po’ come in cucina: una volta trovati gli elementi migliori, bisogna saperli dosare e mescolare con calma. Oggi invece si tende a voler fare tutto in fretta e furia. C’è un tale masochismo che è quasi suicidario.

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Dietro la cinepresa

Questo contenuto è stato pubblicato al (Foto: Giornate cinematografiche di Soletta e Cineteca svizzera)

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swissinfo.ch: Il direttore della fotografia italiano Giuseppe Rotunno ha dichiarato di voler servire unicamente la sceneggiatura e il regista. Lei si è mai permesso di sbandare o di forzare un po’ la mano?

R.B.: Non credo che l’espressione “forzare la mano” sia corretta, perché implica un rapporto di forza nella creazione artistica. L’importante è cercare di capire cosa vuole un regista, al di là della sceneggiatura. Io metto a disposizione di un progetto le mie conoscenze e la mia capacità di dialogo. La sceneggiatura è un punto di partenza fondamentale, ma va sviluppata. Anche perché oggi una sceneggiatura è scritta più che altro con l’obiettivo di trovare finanziamenti ed è dunque molto edulcorata.

Fare un film è un po’ come educare un bambino. Piano piano cresce, sviluppa la propria personalità e diventa quasi autonomo. Quello che è interessante è che a volte un film sfugge quasi di mano ed è probabilmente in questi casi che si ottengono i risultati più straordinari. È un po’ quello che accade ai ricercatori scientifici che lavorano per anni a una tesi, ma invece di trovare il risultato atteso, scoprono qualcosa di completamente nuovo. Nel cinema è la stessa cosa, è un processo creativo davvero interessante.

swissinfo.ch: Qual è il suo rapporto con la luce naturale e con quella artificiale?

R.B.: È difficile rispondere a questa domanda in modo assoluto. Dipende molto dal tipo di film. Quando si gira in studio, si ha a disposizione una certa tecnologia, mentre in ambienti veri si è confrontati con problemi diversi.

Ad esempio, se nella sceneggiatura c’è scritto che oggi piove, bisogna mettersi d’accordo per sapere se si è disposti ad aspettare tre settimane l’arrivo del temporale oppure no… Insomma, la natura non la si può controllare e per questo è necessario un buon dialogo col regista, anche se a volte è difficile.

swissinfo.ch: Le è già capitato di abbandonare un set?

R.B.: Certo, mi è già capitato. Preferisco però non far nomi. Faccio un esempio caricaturale: un regista ti dice “facciamo un film nel Polo Nord”. Ti prepari al freddo e al gelo e poi quando sali sull’aereo ti rendi conto che sei diretto a Sud, nel Sahara. Allora ti alzi e dici: “Ragazzi non ci capiamo. Buongiorno e arrivederci”.

Renato Berta

Oggi a contare sono soprattutto i soldi e il cinema in questo senso è la caricatura di un fenomeno più ampio

swissinfo.ch: Ci sono registi che hanno segnato particolarmente la sua carriera?

R.B.: Credo che ogni incontro mi abbia lasciato qualcosa. È chiaro che, ad esempio, con Alain Tanner ho girato diversi film e con gli anni si è instaurata una certa complicità. All’epoca in Svizzera c’era la tendenza a fare film ispirati alla realtà e alla nouvelle vague francese.

Ma ho fatto anche film con Daniel Schmid che non rientra in questi canoni. E del resto a Tanner i suoi film non sono mai piaciuti. Sono registi che appartengono a due famiglie diverse eppure mi sono trovato bene con entrambi.

Diciamo che bisogna essere un buon camaleonte e a volte ci si sente un po’ schizofrenici perché non si sa più in che film ci si trova…

swissinfo.ch: All’epoca del “Gruppo dei 5” e della Nouvelle Vague eravate consapevoli di scrivere un capitolo importante della storia del cinema elvetico?

R.B.: Non si è mai consapevoli quando si vive un’esperienza di questo tipo. Evidentemente negli anni Sessanta e Settanta c’era una certa energia che oggi non c’è più. Ma questo fa parte del processo di decadenza che sta vivendo attualmente l’Europa.

Oggi a contare sono soprattutto i soldi. Il cinema in questo senso è la caricatura di un fenomeno più ampio. I soldi sono il motore di tutto e la causa del suo declino.

La democratizzazione del cinema ha inoltre aperto grandi possibilità, ma oggettivamente ha reso anche le cose più difficili. Vengono prodotte sempre più immagini. Nel 90 per cento dei casi sono però spazzatura e solo nel 10 siamo di fronte a una vera e propria opera cinematografica.

Nato nel  canton Ticino nel 1945, frequenta il Centro sperimentale di cinematografia di Roma dal 1965 al 1967.

L’inizio della sua carriera di cameraman è legato al nuovo cinema svizzero: Berta collabora con personaggi noti quali Alain Tanner, Daniel Schmid, Jean-Luc Godard, Claude Goretta o Yves Yersin.

Nel 1969 esordisce proprio con uno dei capolavori di Alain Tanner, Charles mort ou vif, Leopardo d’Oro al Festival del film di Locarno.

Negli anni Ottanta si trasferisce in Francia e lavora con registi del calibro di Louis Malle, Jacques Rivette o Alain Resnais.

Nel 1988 vince il César con Au revoir les enfants (Arrivederci ragazzi) di Louis Malle. Nel 2011, Berta ottiene il David di Donatello per Noi credevamo, di Mario Martone.

(Traduzione e adattamento dal portoghese, Stefania Summermatter)

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