Francesco Borromini, il sublime trascurato
Roma custodisce la sua traccia per l'eternità. Si sa poco sull'architetto e scultore ticinese che segnò con il suo stile barocco numerosi monumenti romani. Lo scrittore svizzero francese Etienne Barilier dedica ora un saggio a questo artista fiero e dotato.
Il suo talento fecondò l’architettura europea e il suo volto campeggiò per anni sulle banconote da cento franchi svizzeri. Francesco Borromini valeva una fortuna, eppure non sfuggì alla sfortuna. Impresso sulla carta è stato sicuramente spesso bistrattato. Un po’ come nella vita. Certo, aveva ammiratori. Ma il suo genio suscitò molte gelosie e la sua schiettezza gli procurò parecchi nemici.
Fratelli, artisticamente parlando, ne aveva. Questo “don Chisciotte disilluso” indubbiamente si sarebbe riconosciuto in Alceste, scrive Etienne Barilier. “L’ombroso Borromini, come il Misantropo, diceva sempre ciò che pensava. Una virtù che la gente plaude, ma a debita distanza”.
Il saggio di Barilier su Borromini è il primo in lingua francese dedicato all’architetto, disegnatore e scultore svizzero, considerato come uno degli artisti più importanti e originali del XVII secolo in Italia. L’opera, intitolata “Francesco Borromini. Le mystère et l’éclat” (Francesco Borromini. Il mistero e il lustro), è pubblicata dall’editore Presses polytechniques et universitaires romandes, nella collana “Le savoir suisse”.
L’angoscia di essere saccheggiato
Mistero di una vita solitaria. Borromini è un “figlio di Saturno”, un malinconico, un uomo chiuso. Taluni credono che sia omosessuale. Non si conosce l’esistenza di amanti, mogli o figli di Borromini. La sua solitudine ha qualcosa di depressivo, sfiora la paranoia. L’artista vive nell’angoscia di essere saccheggiato. Normale: è cosciente del proprio valore, la sua opera è folgorante.
Borromini brilla prestissimo. Già all’età di 9 anni. Il ragazzino ha appena lasciato il Ticino natio. A Milano, dove si è installato, segue un apprendistato in una scuola legata alla “fabbrica del Duomo”. Alla scuola dei grandi, dà prova d’indipendenza di spirito e d’inventiva. È dotato, è nei suoi geni.
“Il Ticino è sempre stato un paese di costruttori e di architetti che hanno fatto i bei giorni dell’Italia, ma anche di altri paesi europei, senza contare la Russia”, scrive Etienne Barilier.
All’Italia Borromini dà uno splendore barocco. A Roma soprattutto. Quando giunge nella Città eterna ha 20 anni. Corre l’anno 1619. Roma conta allora circa centomila abitanti, fra cui un abbondante migliaio di artisti, poeti, scultori, architetti… Tra questi ultimi, numerosi ticinesi, fra cui Domenico Fontana e Carlo Maderno.
Suo parente, Maderno prende Borromini sotto la propria ala protettrice. Il vecchio architetto fa lavorare il giovane in due importanti cantieri: la basilica di San Pietro e il palazzo Barberini. Per Borromini è un’esperienza fruttuosa e felice, interrotta dalla morte di Maderno nel 1629.
La vita del giovane artista risente profondamente di questo decesso. Ormai senza protettore, Francesco è in balia dell’animosità di papa Urbano VIII, che già da qualche anno accorda i suoi favori al Bernini.
Transizioni e variazioni
Leggendario rivale del Borromini, il Bernini non impedisce comunque al ticinese di diventare una punta di diamante del barocco romano. Ma Francesco era davvero barocco? Sì, se si considera che la sua opera mantiene viva l’unione “di forze contrarie: la destra e la curva, l’incavatura e la protuberanza”, risponde Barilier.
Testimone di questa “tensione irriconciliata”, una finestra ormai celebre, quella del palazzo Barberini, alla quale Etienne Barilier dedica un intero capitolo. Quella finestra è emblematica dello stile borrominiano, come altre meraviglie create a Roma dal ticinese.
Opere segnate dall’arte delle “transizioni e delle variazioni”. La sublime chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, la cui facciata, nel 1667, è il suo ultimo lavoro, l’Oratorio dei Filippini e tanti altri lavori realizzati dall’architetto e scultore svizzero, senza contare quelli nella Basilica di San Giovanni in Laterano.
Dal suo barocco sorge un’esaltazione: quella di un uomo infervorato con una vita che si conclude in modo eclatante, come eclatante è la sua arte. Borromini si suicida nel 1667. Di lui oggi Etienne Barilier dice: “Non ha mai sofferto di essere pagato male, ha sofferto di essere male amato”
Ghania Adamo, swissinfo.ch
(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)
Scrittore di romanzi e saggista svizzero francese, è autore di una quarantina di opere.
Diversi suoi libri testimoniano il suo interesse per la musica e le arti plastiche, soprattutto italiane.
Si ritrovano così l’Italia e la sua arte nei romanzi Laura, La Creatura, L’Enigma.
Professore di letteratura all’università di Losanna, è anche traduttore.
Un lungo soggiorno all’Istituto svizzero a Roma, gli ha consentito di studiare i capolavori del barocco romano in generale e l’opera di Francesco Borromini in particolare.
Architetto e sculture svizzero, il cui vero nome era Francesco Castelli, il Borromini nasce il 25 settembre 1599 a Bissone, in Ticino, e muore suicida a Roma il 3 agosto 1667.
Dapprima scalpellino come il padre, lascia la Svizzera in tenera età e si trasferisce a Milano, dove impara il disegno e la scultura.
Nel 1619 parte per Roma e vi resta per sempre. Lavora dapprima alla Basilica di San Pietro come scultore ornamentale, sotto la direzione di Carlo Maderno.
La Città eterna gli apre degli ottimi orizzonti, ma gli mette sul suo cammino un rivale di alto livello: il Bernini.
Nel 1634 realizza la sua prima opera personale: la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, detta il San Carlino. La sua fama cresce e Francesco Borromini dirige numerosi cantieri. Gli vengono in particolare affidati importanti lavori di trasformazione della basilica di San Giovanni in Laterano e la costruzione dell’Oratorio dei Padri Filippini.
Depressivo, nell’estate 1667 mette fine ai suoi giorni gettandosi contro una spada. È sepolto nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma.
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