Hiroshima, “chi non c’era non potrà mai capire”
Il nonno di Aya Domenig era medico all’ospedale della Croce Rossa di Hiroshima, quando il 6 agosto 1945 gli Stati Uniti sganciarono la bomba atomica. Un’esperienza di cui non ha mai voluto parlare. Con il documentario “The Day the Sun Fell”, presentato al Festival del film di Locarno, la regista svizzero-nipponica ritraccia la storia della sua famiglia e analizza con sensibilità e distacco la psiche ferita di una nazione.
swissinfo.ch: La bomba di Hiroshima è sempre stata presente nella vita della sua famiglia, ma suo nonno non ha mai voluto parlarne. Come lo spiega?
Aya Domenig.: Nei primi anni dopo Hiroshima e Nagasaki, le vittime e il personale medico avevano il divieto di parlare di quanto successo e delle sue conseguenze sulle vittime. Chi osava dire qualcosa rischiava la prigione. Se con gli anni alcuni hanno cominciato a raccontare, mio nonno non ha mai detto nulla. E questo malgrado Hiroshima abbia segnato la nostra famiglia e faccia parte della memoria collettiva dei giapponesi. Per molti Hiroshima e la bomba atomica sono ancora oggi un tabù.
Quando una volta gli chiesi di Hiroshima, mi rispose che chi non c’era non potrà mai capire e che non è qualcosa che si può descrivere a parole. È una frase che si sente spesso tra le vittime.
Mio nonno era un medico convenzionale, piuttosto conservatore, e si opponeva al fatto che mia madre partecipasse al movimento pacifista.
swissinfo.ch: Suo nonno è morto nel 1991. Per ripercorrere la sua storia è dunque andata alla ricerca delle infermiere che hanno lavorato al suo fianco. Come hanno reagito?
A. D.: Non tutte erano disposte a raccontare quello che accadde. Poi però grazie a mia madre ho incontrato Chizuko Uchida, una donna straordinaria che da sostenitrice della guerra, prima di Hiroshima, si è trasformata in una fervente attivista contro il nucleare. Anche lei lavorò a Hiroshima per un mese, prima di ammalarsi. Ho così deciso di centrare il documentario sulla sua figura, quelle di mia nonna e di Shuntaro Hida, l’unico medico di Hiroshima ancora in vita, che ha dedicato la sua vita a curare le vittime di radiazioni e a battersi per i loro diritti.
swissinfo.ch: Le vittime di radiazioni sono state a lungo discriminate e spesso private del riconoscimento della loro malattia. Qual è la situazione oggi?
A. D.: Solo le persone che vivevano nel raggio di due chilometri dall’epicentro potevano essere ufficialmente riconosciute come vittime. E gli effetti interni delle radiazioni [attraverso il cibo o l’aria, ndr] sono stati riconosciuti solo parzialmente, con la scusa che sotto una certa soglia non ci sono problemi. Vi sono dunque persone che non hanno mai avuto accesso alle cure gratuite e che si sono viste negare il diritto di essere riconosciute come vittime.
Allo stesso tempo la gente aveva anche paura a dire di essere stata contaminata, perché rischiava di non più trovare un impiego, un marito o una moglie. D’altronde anche mio nonno, ammalatosi probabilmente in seguito alle radiazioni, ha esitato a chiedere aiuto.
Oggi questa discriminazione si riproduce con la seconda generazione, le persone nate subito dopo Hiroshima, ma anche con le vittime di Fukushima. Alcuni si fanno passare allo scanner per avere un documento che attesti che non sono stati irradiati.
Il 6 agosto del 1945, alle 8:15 del mattino, gli Stati Uniti sganciano la prima bomba atomica su Hiroshima. I morti sono stimati a 140mila, mentre oltre 200mila persone si ammalano a causa delle radiazioni.
Tre giorni dopo, il 9 agosto 1945 alle 11:02, Nagasaki è a sua volta colpita. I morti sono oltre 70mila.
swissinfo.ch: Come si spiega questa discriminazione?
A. D.: Mi sono chiesta spesso come possa accadere che le vittime della bomba atomica, già colpite da tante sofferenze fisiche, debbano convivere anche con l’emarginazione da parte di altri esseri umani. Credo che abbia molto a che vedere con la necessità di proteggersi da una realtà spiacevole. La gente non voleva riflettersi in questo specchio. Senza contare che le stesse vittime si sono spesso nascoste e ciò ha favorito la discriminazione.
Il dottor Hida ha detto una cosa molto interessante: i giapponesi non conoscono il concetto di lotta per i diritti umani come gli europei. Gli Hibakusha [termine giapponese per definire chi è stato esposto a radiazioni atomiche, ndr] hanno tendenza a nascondersi, a convivere passivamente col proprio destino. Persone come Hida stanno cercando di convincerli a far sentire la loro voce.
swissinfo.ch: Al di là dello sconcerto iniziale, la catastrofe di Fukushima ha in qualche modo contribuito a un cambiamento delle mentalità?
A. D.: La catastrofe di Fukushima ha senza dubbio riportato Hiroshima sotto i riflettori e le ha dato una nuova dimensione. Dopo la Seconda guerra mondiale, molti erano convinti che lo sfruttamento nucleare a fini energetici non andava confuso con l’uso della bomba atomica. Ma dopo Fukushima, si è aperto un dibattito più ampio e molti di coloro che credevano che l’energia nucleare fosse sicura, e si fidavano del governo, sono rimasti sconvolti e hanno cominciato ad interrogarsi. Oggi la maggioranza della popolazione giapponese è contro lo sfruttamento dell’energia nucleare, ma il governo sta andando nella direzione opposta.
swissinfo.ch: Nel documentario vi sono anche alcune immagini storiche che ritraggono le vittime di Hiroshima, mostrando chiaramente gli effetti devastanti della bomba sul corpo umano. Da dove vengono e quando sono state rese pubbliche?
A. D.: Le immagini in bianco e nero sono state girate nel settembre e ottobre 1945 da un gruppo di giornalisti e rappresentanti del mondo scientifico di Tokyo. Hanno cercato di immortalare cosa stava accadendo, senza alcuna sovvenzione. Ma gli Stati Uniti se ne sono accorti subito e hanno sequestrato tutto il materiale. È solo nel 1968 che queste immagini sono state diffuse per la prima volta.
Le immagini a colori, di una qualità eccezionale per l’epoca, sono invece state girate dall’esercito americano nell’aprile del 1946. Per gli Stati Uniti, le bombe su Hiroshima e Nagasaki erano un test e cercavano dunque di raccogliere del materiale sugli effetti delle bombe. Questo documento è stato reso pubblico solo negli anni Ottanta.
swissinfo.ch: “The Day the Sun Fell” intreccia in modo sensibile e rigoroso la sua storia personale con quella collettiva ed è il frutto di quattro anni di lavoro. Una sfida non facile…
A. D.: Ho studiato etnologia, prima di iscrivermi alla scuola di cinema. Ho dunque privilegiato un approccio etnologico „Inside Out“ che consiste nel trascorrere molto tempo con la gente e nell’avere molta pazienza. Ci sono registi che hanno già un’idea chiara in testa quando iniziano a girare. Io non volevo imporre alle persone un concetto prestabilito, ma permettere loro di esprimersi liberamente. È chiaro che questo approccio necessita però di molto tempo e pazienza.
swissinfo.ch: Come pensa che sarà accolto il film in Giappone?
A. D.: Stiamo cercando un distributore, ma visto il tenore politico del mio documentario non sarà facile farlo uscire nelle sale. Probabilmente sarà proiettato solo in alcuni circoli minori. È un peccato perché trovo che sia più importante che mai dibattere delle conseguenze del nucleare proprio ora che le vittime di Fukushima stanno vivendo una situazione analoga a quelle di Hiroshima. I loro diritti vengono calpestati e una volta passati gli anniversari, queste persone vengono semplicemente dimenticate.
I documentari della critica
“Als die Sonne von Himmel fiel“Collegamento esterno (“The Day the Sun Fell”) è stato presentato in prima mondiale alla ‘Semaine de la Critique’, una sezione indipendente del Festival del film di Locarno. Sempre più apprezzata dal pubblico, questa iniziativa è stata lanciata 25 anni fa ed è promossa dall’Associazione svizzera dei giornalisti cinematografici.
In conformità con gli standard di JTI
Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.