Il dramma svizzero degli jenish arriva – finalmente – al cinema
Giorgio Diritti, regista della produzione italo-svizzera Lubo, racconta a SWI swissinfo.ch come ha affrontato la storia e la situazione attuale della comunità jenish nel suo film, presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia.
Le comunità rom, sinti e jenish, riunite sotto il termine dispregiativo “zingari”, non hanno mai avuto una vita facile in Europa, e la Svizzera non ha fatto eccezione nel perseguitarle. Secoli di segregazione e assimilazione forzata sono stati spesso lasciati ai margini dei libri di storia, provocando per generazioni cicatrici che si sentono ancora oggi.
Nel caso specifico delle e degli jenish, noti anche come “nomadi”, alcuni capitoli tragici ne hanno segnato la storia in Svizzera. Per esempio, gli esiti disumani del programma “Kinder der Landstrasse” (Bambini della strada), che la Fondazione Pro Juventute ha portato avanti dal 1926 al 1973, rimangono ancora un tema scottante nella società svizzera. Con l’obiettivo di “educare e assimilare” il popolo itinerante degli jenish, circa 2000 bambine e bambini furono allontanati con la forza dalle loro famiglie e collocati in case-famiglia o in istituti, provocando nelle vittime traumi e problemi psicologici di lunga durata.
Presentato in anteprima all’80ma Mostra del Cinema di Venezia, conclusasi all’inizio di settembre, Lubo di Giorgio Diritti affronta questo delicato tema concentrandosi sia sulla dimensione individuale che su quella comunitaria del dramma che ha colpito la comunità jenish.
Seguendo un uomo jenish la cui moglie viene uccisa e i figli gli vengono portati via, il film di Diritti racconta una storia di perdita e speranze non realizzate che si sviluppa nell’arco di 30 anni nella società svizzera. Dopo la prima della pellicola, abbiamo parlato con il regista della genesi del film e di come ha costruito la storia alla luce delle sofferenze del popolo jenish.
SWI swissinfo.ch: Lubo si basa sul romanzo di Mario Cavatore Il seminatore, che racconta una storia molto importante da una prospettiva storica e sociale. Come ha scoperto il libro?
Giorgio Diritti: Mi sono imbattuto nel romanzo perché un amico mi ha presentato Mario Cavatore, che da allora è diventato a sua volta un amico. A un certo punto è diventato importante staccarmi dal romanzo, prendere distanza. Questo perché ero dell’opinione che lo sviluppo chiave necessario era concentrarsi sul protagonista, Lubo. Era la strada che volevo percorrere. Il romanzo mi ha influenzato e avvicinato a un argomento di cui non sapevo nulla.
Nonostante il film segua soprattutto Lubo, si scoprono non solo il dramma e i traumi della comunità jenish, ma anche la peculiare posizione della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. Ci può dire qualcosa del modo in cui ha ricostruito il contesto storico nel film?
Il mio punto di partenza era il romanzo. La ricerca storica è arrivata in un secondo momento. Ho ripercorso gli archivi ufficiali, disponibili anche sul sito web di Pro Juventute.
Naturalmente, anche persone jenish hanno scritto libri. Per esempio, lo ha fatto Mariella Mehr, che è stata sottratta alla famiglia ed è stata cresciuta in una famiglia affidataria, in strutture di accoglienza per giovani e in istituzioni psichiatriche dopo essere stata bollata come “anormale”. Mettendo insieme tutti questi elementi, ho costruito la dimensione storica. Poi ho sviluppato il personaggio di Lubo e il suo percorso, che nel film è abbastanza diverso da quello descritto nel libro.
Lubo si concentra in modo particolare sulle minoranze, le classi emarginate e il modo in cui la società e le autorità dell’epoca hanno cercato di eradicare queste differenze tentando di creare dei cosiddetti “normali e civilizzati cittadini europei”. L’attore Franz Rogowski, che nel film interpreta Lubo, non proviene dalla comunità jenish. Non La preoccupano le problematiche di rappresentazione e il modo in cui possano influire sul messaggio del film?
Sì e no. Credo che un attore dovrebbe avere la capacità di interpretare una persona che appartenga a questa comunità. E Franz si è dimostrato capace di farlo. Durante tutta la produzione abbiamo lavorato insieme e cercato di capire le radici di Lubo.
Era un uomo che viveva nella natura, che usava molto le mani. Era un artista, ed è per questa ragione che aveva una particolare sensibilità. A un certo punto è stato reclutato come soldato e si è ritrovato in un mondo molto distante da ogni suo interesse e dalla sua immaginazione.
Ma Lubo era anche un uomo in grado di adattarsi. Era un artista di strada e nel film questo aspetto emerge con chiarezza quando si toglie il suo costume da orso. Quest’immagine ci porta a capire che potrebbe trasformarsi ancora in qualcun altro, in una persona che sa come parlare e comportarsi nella “società civile”.
Il film percorre tre decenni della vita di Lubo. Osserviamo la sua evoluzione personale e le trasformazioni sociali e politiche in Italia e in Svizzera. Questi sviluppi si riflettono sottilmente in set e ambientazioni molto suggestive e dettagliate. Com’è stato il processo di ricerca delle location?
Abbiamo svolto un lavoro enorme per quanto riguarda le location e la scenografia. Innanzitutto, è stato davvero difficile trovare ambientazioni o paesaggi che potessero evocare la Svizzera di quell’epoca.
La Svizzera è un Paese ricco che non ha vissuto guerre recenti, il che significa che, a parte alcuni centri storici, le case sono costantemente ristrutturate e rinnovate. Sembrano gioielli. E io temevo che sembrassero finte. Dovevamo cercare delle location che assomigliassero alla Svizzera di allora. E le abbiamo trovate in Italia, in Alto Adige e in Trentino.
Per esempio, la casa dove Lubo va a cercare aiuto. È stato un processo di ricerca molto lungo che ha trasformato la nostra troupe in un vero e proprio gruppo nomade, che viaggiava in roulotte. Per trovare i costumi e coerenza tra le uniformi, le abbiamo cercate in Austria, in Svizzera e persino in Romania.
Oggi in Svizzera vivono 35’000 jenish. Siete stati in contatto con la comunità durante la lavorazione del film? È stata in qualche modo coinvolta nella produzione?
Sì, certo. Per esempio, c’è Uschi Waser, che ha partecipato alla Prima del film. Era una delle molte bambine sottratte alle famiglie ed è stata costretta a stare in 13 diversi istituti. Waser ha sofferto molto e oggi tiene conferenze nelle scuole per parlare di questo lato oscuro della storia svizzera.
Oltre a Waser, ho incontrato anche il suo amico Venanz Nobel, che ha vissuto un’esperienza molto dura. Ha una storia di vita bellissima e commovente, che avrebbe potuto essere un film a parte se l’avessi conosciuta prima. Loro sono stati i miei principali punti di riferimento.
Uno degli assistenti alla regia è poi andato a visitare i campi jenish per reclutare attori e attrici. Abbiamo trovato circa una dozzina di persone disposte a partecipare al film e venire in Italia.
Ci siamo però imbattuti in un problema sul quale nessuno ci aveva messo in guardia. Due famiglie jenish avevano litigato in passato e ci hanno informato che non potevamo metterle insieme nella stessa scena, perché ancora si odiavano profondamente. Così abbiamo cambiato completamente il programma e ridistribuito i ruoli.
Ricordo anche una specifica scena, in cui un’anziana signora leggeva i tarocchi. Quella scena è stata completamente improvvisata, perché lei aveva dimenticato le battute. Ma credo che questo sia normale. Se si decide di lavorare in questo modo, nasce anche un certo tipo di poesia.
A cura di Virginie Mangin e Eduardo Simantob
Traduzione dal tedesco: Zeno Zoccatelli
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