Voci di prostitute risuonano in un vicolo cieco
La regista svizzera Elise Shubs si è immersa per un anno nel mondo della prostituzione a Losanna. Tra un cliente e l’altro, le donne si sono confidate al suo microfono, raccontando una quotidianità fatta di solitudine, menzogne e violenza. Opera prima, il documentario “Impasse”Collegamento esterno è presentato in concorso alle Giornate cinematografiche di Soletta.
La pioggia batte incessante sul quartiere di Sévelin. È una notte qualunque, di un qualunque giorno dell’anno. Solo un po’ più fredda o un po’ più triste. Una donna cammina avanti e indietro: la gonna è troppo corta per scaldarla, l’ombrello troppo piccolo per ripararla.
Poco più in là, seduto al calduccio nella sua automobile, un uomo l’osserva. Cosa è venuto a cercare? Cosa starà pensando? Di lui e degli altri clienti che ogni notte vagano in questo quartiere a luci rosse non sapremo nulla. La telecamera si allontana, discreta, e lascia spazio ai racconti.
«Non avrei mai pensato di finire qui»; «Se solo potessi cambiare pelle, nome, vita»; «Dopo un po’ ci si abitua, altrimenti non potremmo sopravvivere!».
Elise Shubs ha fatto una scelto chiara: filmare la prostituzione senza mostrarla, dando voce alle donne che l’esercitano. «Solitamente sono le autorità, gli esperti o le ONG ad essere interpellati. Io ho privilegiato un altro approccio. Ho però deciso di escludere quelle persone che dicono di prostituirsi per scelta, perché sono una minoranza e dunque non rappresentative del fenomeno».
Guadagnarsi la fiducia delle donne non è stata un’impresa facile, ma a poco a poco quattro di loro hanno accettato di raccontarsi. Senza però mai mostrare il loro volto. «La maggior parte esercita questa attività in segreto o fa parte di una rete di prostituzione forzata e ha dunque paura di parlarne. C’è poi il rischio di espulsione, dato che alcune sono in Svizzera senza un permesso».
Nell’impossibilità di filmare le donne, Elise Shubs ha fatto del quartiere di Sévelin uno dei protagonisti principali del film. L’obiettivo del fotografo Matthieu GafsouCollegamento esterno bracca lo spettatore, lo rinchiude in questi spazi così come la prostituzione imprigiona le sue protagoniste.
«Non voglio amici»
«Non oso avvicinarmi alla comunità africana, perché se scoprissero cosa ho fatto, sarebbe troppo difficile da gestire. Non voglio che si sappia».
Parrucchiere, giornaliste, infermiere, mamme sole… i profili di queste donne sono diversi, ma hanno un tratto comune: una storia d’immigrazione. C’è chi è fuggita dall’Africa ingannata da una falsa promessa e a suon di minacce si è ritrovata per strada. Chi invece ha lasciato un’Italia o una Romania in piena crisi e una volta in Svizzera, senza lavoro, è finita a prostituirsi per racimolare qualche soldo. Quei soldi che col tempo si sono trasformati in una gabbia.
«Spesso queste donne rappresentano un importante sostegno finanziario per la famiglia e la pressione su di loro è enorme». Lavorano sette giorni su sette: dalle 10 a mezzanotte negli appartamenti e dalle 21 alle 5 del mattino per strada. «Ci sono giorni in cui l’unica luce che vedono è quella del televisore o del supermercato», spiega Elise Shubs.
Per paura o per vergogna, vivono la loro attività in segreto ed evitano ogni contatto sociale. «Non oso avvicinarmi alla comunità africana, perché se scoprissero cosa ho fatto, sarebbe troppo difficile da gestire. Non voglio che si sappia. Non voglio amici», racconta una donna.
Nell’atrio di un albergo di Losanna, dove la incontriamo a qualche giorno dall’apertura del festival di SolettaCollegamento esterno, Elise Shubs ci tiene anche a sfatare il mito della solidarietà tra lavoratrici del sesso: «Prima di tutto vengono spostate regolarmente da una città all’altra e poi spesso non parlano nemmeno la stessa lingua. Sono donne sole, estremamente sole».
«Non si dimentica, ma forse si può ricominciare»
Laureata in scienze umanistiche ed esperta di asilo, Elise Shubs ha lavorato per diversi anni a fianco di Fernand Melgar nella realizzazione di documentari come “L’Abri” o “Vol Spécial”. «Ero abituata a dovermi confrontare con situazioni estreme, come quelle dei senza-tetto o delle persone costrette a un rimpatrio forzato. Ma immergermi nel mondo della prostituzione è stato forse più difficile, perché mi ha costretta ad interrogarmi sulla sessualità, per me fonte di piacere e per altre causa di sofferenze».
Come filmare uno dei lati più oscuri dell’essere umano, si è chiesta allora Elise Shubs. Con delicatezza e rispetto, potremmo rispondere. E un antidoto: una buona dose di commedie romantiche, per «avere ancora fede nell’amore». Sì, perché Elise Shubs ha visto molto di più di quanto ha deciso di mostrare.
Questa notte, nel quartiere di Sévelin, una donna camminerà avanti e indietro, illuminata soltanto dai fari di un’automobile. L’obiettivo di Matthieu Gafsou non sarà più lì a restituirci un fotogramma. Nella testa degli spettatori riecheggeranno però forse ancora le voci delle protagoniste.
«La gente crede che i clienti vengano per una botta e via, ma non è così semplice. Alcuni clienti sono convinti di poter pretendere tutto, solo perché hanno pagato».
«Dimenticare non si dimentica, ma forse si può cominciare una nuova vita».
Seguite l’autrice su Twitter: @stesummiCollegamento esterno
Elise Shubs
Nata nel 1980, Elise Shubs è cresciuta in un quartiere multiculturale di Renens, vicino a Losanna. Dopo un master in scienze sociali e umanistiche, si è specializzata in diritto d’asilo e ha fondato l’associazione “Country Information Research Center” (CIREC). Ha lavorato diversi anni per la casa di produzione Climage in qualità di produttrice, coautrice e operatrice audio, collaborando in particolare con il regista Fernand Melgar (“Vol Spécial”).
Attualmente è vicedirettrice di Casa Azul, associazione che riunisce produttori e registi indipendenti e lavora come per l’ONG EPER sulle tematiche dell’asilo.
“Impasse” è il suo primo documentario.
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