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La Svizzera non è più un’isola cinematografica

La forza del cinema svizzero si riflette nei suoi documentari

Con "Siamo italiani", di Alexander J. Seiler, il cinema svizzero affronta per la prima volta nel 1964 il tema dell'immigrazione straniera. Frenetic Films

Da qualche anno, il festival del film di Locarno consacra ampio spazio ai documentari elvetici. Un genere cinematografico che in Svizzera ha una lunga tradizione e che è riuscito a ritagliarsi una solida reputazione anche al di là delle frontiere. Sguardo d'esperti.

«In un paese come la Svizzera dove l’industria cinematografica è praticamente inesistente, i documentari hanno impregnato fin dall’inizio la storia della produzione nazionale», spiega Alain Boillat, professore ordinario della sezione di storia ed estetica del cinema all’università di Losanna.

Stando alle statistiche di Swiss Films, negli ultimi cinque anni il numero di documentari realizzati è stato il doppio di quello dei film di finzione: 162 contro 87, senza contare le produzioni con fondi esteri maggioritari. Una pluralità che è propizia alla fioritura di piccoli capolavori, ospiti regolari dei maggiori festival internazionali, da Berlino a Cannes.

Dopo essere stati a lungo snobbati dai distributori commerciali, i documentari svizzeri oggi figurano nel cartellone delle principali sale cinematografiche, soprattutto nella Svizzera tedesca. Alcuni hanno ottenuto anche un discreto successo di pubblico: “Mani Matter – Warum syt dir so truurig” (2002), di Friederich Kappeler, è tuttora tra i dieci documentari di maggior successo in Svizzera, stando alle statistiche di Pro Cinema sul periodo 1995-2012. Con oltre 146’000 entrate, il documentario sulla personalità complessa di un famoso cantante bernese ha ottenuto un risultato paragonabile a quello di blockbuster come “The Social Network” (2010).

Volontà politica

Produrre e distribuire un documentario costa meno e necessita di strutture meno complesse rispetto a un film di finzione. Questo è un dato di fatto. Da solo, però, non spiega l’emergere di questo genere cinematografico e la sua proliferazione, tra le più alte d’Europa. Se la Svizzera riesce a spiccare soprattutto nella sezione documentari, è anche grazie a una chiara volontà politica. 

La prima legge federale sulla cinematografia del 1962 – che poneva le basi per un sostegno finanziario, seppure minimo, ai registi – era riservata esclusivamente ai documentari. «Per oltre dieci anni, i film di finzione non sono stati considerati come un prodotto culturale, ma di divertimento», spiega Marcy Goldberg, docente di storia e teoria del cinema all’università di Lucerna.

“Il cinema ha spesso permesso di risvegliare le coscienze, affrontando temi ancora tabù”

Ancora oggi, la visibilità dei documentari viene incoraggiata maggiormente a livello federale, con sussidi più alti in base al successo ottenuto al botteghino, destinati a registi, produttori, distributori e proprietari di sale. La televisione pubblica svolge inoltre il ruolo di principale produttore e diffusore di documentari. Nei suoi corridoi hanno mosso i primi passi molti registi, dalle vecchie guardie come Alain Tanner e Claude Goretta, ai più giovani Lionel Baier e Fernand Melgard.

«Questa scelta politica ha probabilmente permesso di sviluppare una cultura del documentario tra gli artisti, ma anche nel pubblico», commenta la storica del cinema Yvonne Zimmermann, coautrice di uno dei rari libri in Svizzera consacrati al documentario. «In alcune città come Zurigo, l’offerta nelle sale è particolarmente ampia rispetto ad altri paesi. Ogni domenica c’è un nuovo ciclo di documentari e il pubblico reagisce con entusiasmo». I numerosi cineforum, i festival di genere – come quello di Nyon consacrato al documentario o quello di Soletta sul cinema svizzero – hanno fatto il resto, contribuendo ad avvicinare il pubblico a questo genere.

Nuovi “eroi”

«Il cinema ha spesso permesso di risvegliare la coscienza collettiva, affrontando temi ancora tabù come la migrazione, il ruolo della Svizzera nella Seconda guerra mondiale o semplicemente le difficoltà quotidiane vissute dai contadini di montagna», continua Marcy Goldberg. La svolta giunge con “Siamo italiani”, di Alexander J. Seiler, primo documentario ad affrontare in modo critico il problema dell’immigrazione di manodopera straniera. Era il 1964 e allora gli italiani erano visti come un “problema” per la società.

Il nuovo cinema svizzero si dota così di nuovi personaggi: stranieri, handicappati, carcerati, contadini, bambini abbandonati, politici traditi e artisti. Le tematiche identitarie e di critica sociale hanno marcato i primi decenni di storia cinematografica e ancora oggi sono uno dei filoni dominanti, assieme a quello dei reportage etnografici o naturalistici.

Ma se negli anni Settanta questo tipo di documentari di critica sociale era prevalente tra i registi svizzero-tedeschi, oggi è nella Romandia che si sviluppa un nuovo filone “impegnato”, che prende tuttavia le distanze da un passato più militante. «Registi come Fernand Melgar o Jean-Stéphane Bron si vogliono apolitici, spiega Alain Boillat. I loro film cavalcano una problematica sociale, presentano i fatti forse con più leggerezza, senza costruire un discorso politico».

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Temi da esportazione

Fatta eccezione per qualche stella sporadica, il cielo della finzione in Svizzera ha smesso ormai da tempo di brillare. Quali ne siano le cause – dai costi troppo elevati, alla mancanza di attori e produttori, fino alla scarsa capacità di raccontare una storia – è un dato di fatto che i film svizzeri di finzione riescono raramente a sedurre un pubblico internazionale.

È invece nei documentari che la produzione svizzera raccoglie più consensi, nei festival come nelle sale. Nominato a un Oscar, “War Photographer” (Christian Frei, 2001) è stato distribuito in molti paesi, così come “Elisabeth Kübler-Ross” (Stefan Haupt, 2003), “Die Frau mit den 5 Elefanten” (Vadim Jendreyko, 2009), “Sounds of Insects” (Peter Liecht, 2009) e “Cleveland vs. Wall Street” (Jean-Stéphane Bron, 2010).

Stando ad Alain Boillat, questo successo è legato forse più alla scelta delle tematiche che alla forma cinematografica. «Raramente lo stile dei nuovi documentari svizzeri riesce a sorprendere. È come se fossimo di fronte a una sorta di standardizzazione del prodotto artistico, legata probabilmente anche all’influenza del formato televisivo». La Svizzera, secondo il professore di Losanna, dovrebbe puntare maggiormente sulla formazione di nuovi registi e cineasti, non solo a livello tecnico ma anche di storia del cinema.

Alcuni registi svizzeri hanno forse il difetto di essere «stilisticamente poco coraggiosi», rileva Marcy Goldberg, sottolineando tuttavia come siano «proprio quei film che si assumono dei rischi a livello tematico e stilistico a farsi notare maggiormente sul piano internazionale» e a contribuire al dialogo tra le culture.

Successo al botteghino

Il documentario che ha ottenuto il maggior successo in Svizzera, dal 1995 al 2012, è il francese “Microcosmos – Il popolo dell’erba”, dei registi Claude Nuridsany e Marie Pérrenou (381’059 entrate).

Il primo documentario svizzero si trova al decimo posto: “Mani Matter – Warum syt dir so truurig” (2002), di Friederich Kappeler. Sulle 146’300 entrate registrate, soltanto 940 provengono dalla Svizzera romanda e 315 da quella italiana.

Seguono “Das Wissen vom Heilen” (1997), di Franz Reichle, (105’231 entrate), “Il genio elvetico” (2003), di Jean-Stéphane Bron (105’182) e infine “Die Kinder vom Napf” (2011), di Alice Schmid (72’311).

Nessun documentario in lingua italiana ha superato le 20’000 entrate.

Nella categoria finzione, il primato elvetico spetta a Bettina Oberli con “Die Herbstzeitlosen” (2006, 596’503 entrate). La classifica è dominata da “Titanic” (1997), di James Cameron, con 1’940’608.

Parola di regista

«Da piccolo avrei voluto fare il boscaiolo o il chirurgo. Per spirito di sintesi, mi sono interessato al cinema in modo da poter trascorrere le mie giornate tra gli alberi, le mani piene di carne umana».

Lionel Baier, 2007

«Mi sembra importante che i film riflettano la realtà svizzera, ma anche quella globale e universale. Quando faccio un film, aspiro all’autenticità, la verità, le ricerche approfondite e un vero intercambio culturale».

Christian Frei, 2005

«Faccio cinema a partire dalla realtà. Questo significa che racconto storie distillate dalla realtà; storie che raccontano la vita. Cerco, per quanto possibile, di non utilizzare più il termine “documentario” per riferirmi alle mie pellicole, perché questo oggi si adatta troppo alle esigenze della televisione ed è quindi diventato incomprensibile».

Eric Langjahr, 2006

«Devo poter girare là dove si parla la mia lingua. I film hanno bisogno della loro patria».

Fredi M. Murer, 2005

«Mi piace rappresentare e fissare sulla pellicola delle cose e degli eventi, che forse – probabilmente – anzi forse certamente non esisteranno più domani. […] Fare dei film, per me, significa prima di tutto: guardare e ascoltare con precisione».

Jacqueline Veuve, 2000

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