La pista delle opere rubate dai nazisti passa dalla Svizzera
Importante crocevia per la vendita e il trasferimento di opere d’arte sottratte dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, la Svizzera detiene la chiave per far luce su queste transazioni. I documenti pubblicati online recentemente dal governo non sono però sufficienti, sostengono gli esperti.
Il tempo è contato per i membri ancora in vita delle famiglie ebree le cui collezioni d’arte sono state trafugate o confiscate dai nazisti durante il conflitto. Poiché le domande di restituzione diventano sempre più complesse e concernono diverse giurisdizioni, molti eredi rinunciano ad intraprendere le pratiche necessarie.
In giugno, l’Ufficio federale della cultura ha pubblicato sul suo sito una serie di documenti ed informazioni. L’obiettivo è di aiutare queste persone, i musei e i ricercatori a coordinare i loro sforzi per identificare le opere d’arte trafugate.
Nello stesso tempo, però, il mercato dell’arte continua a proporre, vendere e trasferire opere d’arte rubate durante la guerra. Swissinfo.ch ha chiesto ad alcuni esperti cos’altro si potrebbe fare.
La Svizzera, osservano, fa parte del problema, ma detiene anche le chiavi per la sua soluzione. Se la documentazione relativa alle vendite avvenute in territorio svizzero durante e dopo la guerra venisse alla luce, i dubbi che avvelenano il mondo dell’arte potrebbero essere in parte fugati, impedendo agli attuali detentori di ignorare l’origine delle opere d’arte in loro possesso.
Secondo le stime, circa 100’000 opere d’arte sulle 600’000 trafugate durante il regime nazista dal 1933 al 1945 sono tuttora disperse.
Recenti campagne d’identificazione e di restituzione hanno dovuto inoltre far fronte alla crescente resistenza delle istituzioni artistiche. Le ragioni addotte dai musei? Le prove dell’espropriazione sarebbero incomplete, è trascorso troppo tempo e i capolavori sarebbero comunque di pubblico dominio.
Funzionari doganali tedeschi hanno scoperto nel 2011 in un appartamento di Monaco di Baviera un’impressionante collezione di dipinti (1’400 opere) confiscati dai nazisti o venduti da ebrei perseguitati, stando all’ultima edizione della rivista tedesca Focus. Il governo federale ha confermato la notizia, indicando che era informato da mesi sul caso.
I quadri, tra cui dei Picasso, dei Matisse e dei Klee, erano finiti negli anni ’30 e ’40 nelle mani di Hildebrand Gurlitt, uno storico dell’arte che era stato incaricato da Joseph Goebbels di vendere all’estero opere di «arte degenerata» esposte nei musei tedeschi. Dopo la fine della guerra, Gurlitt (morto in un incidente d’auto nel 1956) riuscì a difendersi dalle accuse di collaborazione coi nazisti, accampando le sue origini ebraiche (sua nonna era ebrea). Per quanto concerne i dipinti, si pensava che fossero andati persi durante il bombardamento di Dresda nel febbraio 1945. Il loro valore oggi è stimato oltre un miliardo di euro.
Invece, stando a Focus, i quadri sarebbero rimasti nascosti per 50 anni nell’appartamento di Monaco del figlio di Hildebrand Gurlitt, Cornelius.
Cornelius Gurlitt, considerato un solitario senza professione, si recava spesso in treno in Svizzera, apparentemente per vendere pezzi della collezione, sua unica fonte di guadagno. Nel settembre 2010, il suo comportamento ha però attirato l’attenzione dei funzionari doganali tedeschi, che hanno scoperto su di lui 9’000 euro in contanti, una somma tale da destare sospetti di evasione fiscale. Gurlitt avrebbe dichiarato che i soldi erano il risultato di una transazione con la Galleria Kornfeld di Berna, che in questi giorni ha però smentito: «L’ultimo contatto che abbiamo avuto con Cornelius Gurlitt risale agli anni ‘90», ha indicato.
Qualche mese dopo il controllo doganale, le autorità giudiziarie tedesche hanno avviato un’inchiesta nei confronti Gurlitt e perquisendo la sua abitazione invece di contanti avrebbero trovato la preziosa collezione celata, dietro scatole di conserva scadute e montagne di rifiuti.
Dopo la scoperta, un’esperta dell’Università libera di Berlino sarebbe stata incaricata di ricercare l’origine delle opere e di rintracciare i legittimi proprietari, scrive ancora Focus. Una delle ragioni per cui le autorità hanno tenuta nascosta la scoperta per così tanto tempo è forse giuridica: tecnicamente, infatti, Cornelius Gurlitt potrebbe essere il legittimo proprietario.
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Far luce negli archivi
Terra di rifugio non solo per diverse famiglie ebree, ma anche per mercanti d’arte simpatizzanti del III Reich, la Svizzera è stata un importante crocevia per la vendita di opere d’arte durante e dopo l’epoca nazista.
Diverse gallerie svizzere, tra cui la Gutekunst Klipstein (oggi Kornfeld) a Berna, la Fischer a Lucerna e la Fritz Nathan a Zurigo, hanno organizzato grandi vendite e aste, con la conseguenza che numerose opere sono state trasferite all’estero, principalmente negli Stati Uniti. Gli esperti sospettano che nei loro archivi, così come in quelli di Bruno Meissner e dei fratelli Moos, vi siano le risposte alle domande sulle condizioni in cui si è svolta la vendita.
«Piuttosto di lanciare un sito web, gli svizzeri dovrebbero aprire i loro archivi», sottolinea Raymond Dowd, uno specialista giuridico statunitense per il recupero di opere d’arte rubate.
Dowd, che lavora per un importante studio d’avvocati americani, ha consigliato gli eredi dell’artista di cabaret austriaco Fritz Grünbaum, arrestato dai nazisti nel 1938 e morto nel campo di concentramento di Dachau nel 1941.
Nel quadro di questo mandato, Dowd non ha potuto avere accesso alla documentazione che accompagna la dispersione della famosa collezione Grünbaum, parte della quale è riapparsa a Berna nel 1956.
Malgrado il loro statuto di opere d’arte trafugate, pitture e disegni di Egon Schiele che appartenevano a Grünbaum sono stati acquistati dal Museo Leopold di Vienna – una fondazione privata gestita però anche dalle autorità austriache – e più di dieci musei americani non si sono mai interrogati sulla loro provenienza. Fino a quando sono state presentate delle domande d’indennizzo.
Raymond Dowd ritiene che adottando la politica dello struzzo, i musei agiscono come le banche svizzere, che hanno negato fino all’ultimo di avere dei conti in giacenza di vittime dell’Olocausto. Banche che poi, nel 1998, hanno dovuto cedere, finalizzando un accordo per risarcire agli eredi sopravvissuti una somma di 1,25 miliardi di dollari.
Secondo Benno Widmer, direttore dell’ente che si occupa delle opere d’arte trafugate presso l’Ufficio federale della cultura (UFC), durante tutti questi anni la Svizzera non è rimasta con le mani in mano. Già nel 1946-1947, 71 dipinti sono stati restituiti ai loro legittimi proprietari e il processo di identificazione non si è mai interrotto. Widmer sottolinea che la situazione è più complicata per quelle decine di migliaia di opere sottratte dai nazisti nei paesi occupati, poiché molti proprietari non sono mai stati identificati. Il lavoro di ricostituzione della provenienza è così molto più difficile.
«Ogni opera d’arte ha una sua storia e incoraggiamo i musei a condurre delle inchieste», spiega. Nel 2010, una ricerca effettuata dall’UFC presso tutti i musei svizzeri aveva tuttavia rivelato che solo per un quarto delle opere acquisite tra il 1933 e il 1945 era stata chiarita la provenienza.
L’obiettivo dei documenti recentemente pubblicati dall’UFC è di permettere di riunire le informazioni disponibili e di promuovere controlli di provenienza supplementari. «I musei ci dicono che abbiamo fornito loro gli strumenti adeguati», assicura Widmer.
Le scatole nere dell’arte
In base ai Principi della Conferenza di Washington del 1998 (vedi riquadro), le autorità elvetiche hanno incaricato lo storico dell’arte e giornalista Thomas Buomberger di preparare il primo rapporto ufficiale sul ruolo della Svizzera quale paese di transito per le opere d’arte saccheggiate durante la guerra.
«Vi è chiaramente una volontà del mercato dell’arte di occultare la polvere sotto il tappeto», ammette lo specialista. A suo avviso, la Svizzera in quanto paese non ha però nulla da nascondere e i discendenti dei mercanti implicati nelle vendite di opere trafugate potrebbero ancora essere in possesso di preziosi archivi, a meno che siano stati distrutti.
Thomas Buomberger non è convinto che le ricerche sulla provenienza offerte dal sito web dell’UFC siano sufficienti. «Nessuna legge obbliga i mercanti d’arte e i musei ad interessarsi a chi appartenessero. Non vedono nessuna ragione per consacrare fondi a una ricerca lunga e costosa».
«I magazzini dei musei non sono ancora stati esaminati e gli archivi che sono scomparsi sono le scatole nere del mondo dell’arte», osserva lo storico dell’arte.
Thomas Buomberger rileva che anche uno dei più grandi e prestigiosi musei svizzeri – il Kunsthaus di Zurigo – non conosce il contenuto esatto dei suoi depositi. Malgrado le assicurazioni pubbliche sul fatto che le ricerche sull’origine siano state condotte con diligenza, un ex vicedirettore ha recentemente dichiarato a Buomberger che lui stesso non aveva nessuna idea del contenuto.
Un’affermazione respinta con vigore da Björn Quelleberg. Contattato da swissinfo.ch, il portavoce del Kunsthaus di Zurigo dichiara che un inventario completo, per il quale sono stati necessari cinque anni di tempo e un milione di franchi, è stato stilato nel 2007. Ricerche in questo senso erano già state compiute negli anni ’80. La provenienza delle opere acquisite dal Kunsthaus tra il 1930 e il 1950 – afferma – non può più «essere rimessa in questione».
Thomas Quelleberg aggiunge che il Kunsthaus, che ha uno statuto di associazione privata, non alimenterà la banca dati ufficiale svizzera. Ciò vale anche per le case d’asta.
Altri sviluppi
I musei svizzeri di fronte al passato che ritorna
Fondazioni «creative»
Secondo Jonathan Petropoulos, autore di diverse pubblicazioni sul tema, le spogliazioni non hanno preso fine con la Seconda guerra mondiale. «Anche se vi è una maggiore trasparenza per quanto riguarda i conti bancari, i caveau delle banche e i porti franchi sono tuttora dei rifugi per le opere rubate. Dopo la guerra, un numero considerevole di beni artistici sono stati trasferiti dalla Baviera e dall’Austria in Liechtenstein e in Svizzera», comunica per e-mail.
«Sono state costituite delle fondazioni ‘creative’, con l’intenzione di nascondere le opere trafugate», aggiunge, menzionando gli esempi di Bruno Lohse (vedi articolo correlato) e di Ante Topic Mimara.
Il ricercatore americano osserva anche che l’aumento esponenziale del valore delle opere litigiose ha fatto salire la posta in gioco.
Ori Soltes, cofondatore dell’Holocaust Art Restitution Project, un forum che aiuta i potenziali eredi dei proprietari, sottolinea in un’intervista telefonica che l’attenzione del pubblico internazionale si cristallizza soprattutto sulle domande di restituzione dei quadri di fama mondiale.
Secondo lui, quando i musei apriranno finalmente i loro depositi, vi sarà una seconda ondata che riguarderà disegni, stampe, quadri e soprattutto immense biblioteche di libri preziosi, scomparsi durante la guerra.
Il valore sentimentale di questi oggetti per le famiglie ebree spogliate supera di gran lunga quello di mercato, sottolinea Ori Soltes.
I pezzi mancanti
Anche se vi sono stati importanti recuperi di collezioni disperse, come quella del mercante d’arte Paul Rosenberg (una storia raccontata nel libro 21 Rue de La Boétie da sua nipote, la giornalista Anne Sinclair, ex moglie di Dominique Strauss-Kahn), la ricerca rimane difficile, poiché mancano molti tasselli. Ogni anno, i tribunali americani respingono più di nove domande su dieci.
Alcuni musei statunitensi stanno addirittura prendendo misure preventive per ottenere ordinanze giudiziarie che confermano che le opere sono di loro legittima proprietà. E ciò ancor prima che siano state presentate domande di restituzione e malgrado le lacune in merito alle prove dell’origine. Ad esempio, il museo Guggenheim di New York ha proceduto in questo modo per Le Moulin de la Galette di Picasso e il museo di belle arti di Boston ha fatto altrettanto per Due Nudi, un dipinto di Oskar Kokoschka del 1913.
Un portavoce del MoMA di New York ha recentemente dichiarato che un museo ha il dovere nei confronti del pubblico di conservare la proprietà di simili opere.
Da parte sua, Thomas Buomberger ritiene che la spinta per rilanciare la dinamica venutasi a creare coi Principi di Washington debba venire dagli Stati Uniti, paese dove si trova il maggior numero di opere rubate dai nazisti.
«Da parte nostra dobbiamo ricordarci i nostri obblighi morali», sottolinea lo storico dell’arte per incitare la Svizzera a cercare i tasselli mancanti che potrebbero permettere di determinare la provenienza delle opere.
Di fatto, lo scorso luglio, l’ordine federale americano degli avvocati ha lanciato un appello per la creazione di una «commissione del Congresso per risolvere i problemi di identificazione e di proprietà delle opere d’arte confiscate dai nazisti, in conformità coi Principi della Conferenza di Washington».
Benno Widmer ricorda da parte sua che il governo svizzero ha ribadito il suo impegno: «I lavori proseguiranno fino a quando conosceremo la verità su queste opere d’arte».
Nel 1998 sotto la direzione degli Stati Uniti 44 paesi hanno siglato un accordo per promuovere l’identificazione delle opere d’arte confiscate dal regime nazista e la ricerca di «una soluzione giusta ed equa» con gli eredi dei proprietari.
Queste regole, non vincolanti, sono state poco efficaci. Quindici anni dopo, malgrado la volontà politica manifestata in Germania, Austria, Olanda, Francia e in minor misura in Gran Bretagna, le ricerche sull’origine sono in generale avviate solo dopo la domanda di restituzione. Raramente le autorità e le istituzioni agiscono in maniera proattiva.
Spagna, Italia, Ungheria, Polonia e Russia continuano invece a mostrarsi particolarmente reticenti ad ogni forma di restituzione, nonostante abbiano firmato l’accordo.
Dal 1933 al 1945, i nazisti condussero una politica di espropriazione sistematica delle opere d’arte, dapprima nei confronti degli ebrei residenti in Germania e Austria, poi, una volta scoppiata la guerra, nei paesi occupati. In teoria, le opere trafugate avrebbero dovuto finire nel museo del Führer a Linz, in Austria, infrastruttura che non fu mai realizzata.
Uno dei principali artefici di questa ‘deportazione’ artistica fu il feldmaresciallo Hermann Goering, che si considerava un grande intenditore. Per compiere questa gigantesca razzia erano stati addirittura formati dei reparti speciali. Secondo fonti ebraiche, furono trafugate complessivamente oltre 600’000 opere d’arte.
Alcune opere, considerate da Hitler e dai nazisti ‘arte degenerata’, furono distrutte. Dopo la capitolazione della Germania, gli alleati ritrovarono molti oggetti nascosti nei luoghi più diversi, ad esempio in miniere di sale, e li riconsegnarono nella misura del possibile ai proprietari. Molti beni furono invece trasferiti in gran segretezza in Unione Sovietica e molti altri scomparvero.
(Traduzione di Daniele Mariani)
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