La voce critica dell’intellettuale
Il regista Paolo Poloni, cresciuto nella Svizzera tedesca, parla del suo amore per gli italiani un po' «sui generis» come lui.
A cavallo tra il successo economico e lo sciovinismo calcistico-patriottico, per lui la comunità italiana in Svizzera non è riuscita a creare una realtà culturale ed artistica autonoma.
«Da piccolo mi sentivo molto isolato» ricorda Paolo Poloni, che è cresciuto in una famiglia tutta casa e lavoro, come ce n’erano tante negli anni ’50 e ’60 in Svizzera.
Forse anche per questo, verso i vent’anni, comincia ad interessarsi alla comunità di immigrati dal suo paese d’origine. Erano gli anni ’70, anni in cui la sinistra era fortemente impegnata nella trasformazione della società.
«Il mio interessamento alla cultura italiana si concentrava allora soprattutto sulle scuole serali». Lui, universitario, insegnava il tedesco e la storia ai suoi connazionali.
«Erano montanari del nord o contadini del sud, semianalfabeti, un’umanità veramente diseredata», ricorda Poloni. Per questa gente lo studio, prima ancora di un’esigenza d’integrazione, rappresentava il riscatto sociale.
Il mundial dell’Italia
E poi nello spazio di un decennio ecco che comincia «l’orgoglio italiano». Poloni ricorda un momento preciso, il 1982: l’Italia vince i mondiali di calcio. Gli italiani escono dall’ombra e invadono le strade in un irrefrenabile scoppio di gioia collettiva.
Ma proprio allora Poloni – e non per colpa del calcio, visto che ama lo sport – si allontana dall’associazionismo italiano.
« Succedeva qui in Svizzera la stessa cosa che accadeva nell’Italia della Prima Repubblica, antecedente a Mani Pulite. Era diventato un ambiente altamente partitico e lottizzato. Solo che era di una tale piccolezza da risultare ridicolo. Per me e per tanti altri italiani cresciuti in Svizzera era diventato un ambiente incomprensibile. Ci siamo sentiti anche un po’ sfruttati. E poi l’immigrazione ha cominciato ad invecchiare.
Un’immigrazione che se è stata coronata dal successo economico non ha prodotto abbastanza cultura, al di fuori di quella istituzionalizzata.
«Mi piacerebbe veder nascere in Svizzera un’area non definita dallo sciovinismo, ma dalla diversità. Giovani artisti, intellettuali italiani che trovino un linguaggio comune per esprimere la loro condizione. E non ci vuole un centro studi, la casa d’Italia o il bar sport».
Italiani diversi
«Adoro stare con gli italiani che sono cresciuti qui, che hanno biografie simili alla mia. Mi fa star bene, perché non devo spiegare tante cose. Abbiamo un’identificazione automatica. Evito completamente invece ogni contatto con la vita pubblica strutturata della comunità italiana. La trovo tuttora poco vivace, molto monopolizzata da ragionamenti statali e istituzionali. Troppo poco libera».
E i Secondos, che proprio a Zurigo hanno costituito una piattaforma che ha come punto comune il fatto di essere stranieri di seconda generazione? «Mi hanno chiesto tante volte di partecipare», risponde il regista dopo un’attenta riflessione. «Ma anche per ragioni di età non me la sento. Come fai a chiamarti di seconda generazione a 50 anni? Io lo trovo riduttivo al massimo. Se uno vuole partecipare attivamente alla vita politica elvetica locale lo può fare in mille altri modi».
Ambiguità e folklore
E poi forse, a parte l’ambiguità di stare a cavallo tra due mentalità e culture diverse – quella italiana e quella svizzero-tedesca – per un intellettuale, un artista, un certo margine di insicurezza, di non appartenenza completa è quasi necessario. «Non mi faccio svizzero come si dice qui, non chiedo il passaporto elvetico, anche se apprezzo tantissimo la Svizzera.»
Il tema della scoperta delle proprie radici, Poloni lo sviluppa da qualche anno nei suoi film. «Ho sempre cercato di evitare la banalizzazione nel descrivere cosa vuol dire essere italiano in Svizzera. Perché nonostante la vicinanza dell’Italia, malgrado tanti prendano il passaporto elvetico, e tanti facciano i broker in borsa o i vicedirettori di banca, è una condizione che ha aspetti anche drammatici».
Lo infastidiscono anche quei ragazzi che si appigliano alle poche frasi in italiano che sanno a memoria come fossero ancore di salvezza, mischiandole al dialetto svizzero-tedesco. «Questo piace tanto agli assistenti sociali, lo trovano folkloristico». Per un intellettuale, sempre un po’ tormentato dal dubbio, non può certo bastare come espressione d’italianità.
swissinfo, Raffaella Rossello
Nel 2006, in Svizzera vivevano 299’073 italiani.
Il 38,4% di loro proviene dal nord Italia, il 51,6% dalle regioni meridionali e delle isole.
L’apice della loro presenza fu fra il 1950 e il 1970, quando gli italiani divennero la comunità straniera più numerosa in Svizzera.
A partire dalla seconda metà degli anni ’70, le conseguenze della crisi petrolifera e le trasformazioni nel mercato del lavoro portarono a una forte e progressiva diminuzione della loro presenza
Paolo Poloni, di madre lombarda e padre veneto, è un regista indipendente. Vive a Zurigo.
In passato ha realizzato un documentario sulla fine della cultura sefardita – giudaica con radici spagnole – nell’area turco-balcanica.
Diversi suoi documentari – Asmara o Viaggio a Misterbianco – sono una ricerca storico-autobiografica delle proprie radici culturali italiane.
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