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Le molte vite di Barbet Schroeder

Barbet Schroeder e Ricardo Cavallo
Barbet Schroeder (a destra) con l'artista argentino Ricardo Cavallo, protagonista del documentario Ricardo et la Peinture proiettato al Locarno Film Festival. Locarno Film Festival / Ti-press

Il più internazionale dei cineasti svizzeri ha portato la sua ultima opera, Ricardo et la Peinture (Ricardo e la pittura, 2023), al Locarno Film Festival, dove ha parlato a SWI swissinfo.ch dei sei decenni che ha dedicato alla Settima arte.  

Quando gli chiediamo cosa è per lui l’identità svizzera, Barbet Schroeder dice che la sua terra non è la nazione intera, ma la città di Losanna. Il cineasta, che il 26 agosto compirà 82 anni, è però nato a Teheran, in Iran, ha passato l’infanzia in Colombia e, a 11 anni, si è trasferito con la famiglia in Francia, dove ha più tardi ha completato gli studi, alla Sorbona.

Da adolescente, Schroeder ha iniziato a guardare film alla Cinémathèque Française, luogo di incontro per le persone appassionate di cinema, molte delle quali sarebbero diventate influenti personalità del mondo del cinema e della critica, in Francia e oltre.

Lì ha conosciuto un gruppo che gravitava attorno alla rivista Cahiers du Cinéma, che aveva lanciato la Nouvelle Vague: Jean-Luc Godard, François Truffaut e, più intimamente, Eric Rohmer (morto nel 2010), di cui Schroeder ha prodotto i film.

Il suo primo film da regista è stato More (1969), su eroinomani nel paradiso hippie di Ibiza. La colonna sonora del gruppo prog-rock dei Pink Floyd ha contribuito alla fama della pellicola per decenni tra i fan della band.

In seguito, Schroeder ha lavorato in Africa, Asia, Hollywood, Colombia e molti altri luoghi. Il suo ultimo lavoro, il documentario Ricardo et la Peinture, è stato proiettato al Locarno Film Festiival. Si tratta forse del lavoro più intimo di Schroeder e celebra gli oltre 40 anni di amicizia con l’artista argentino residente in Francia Ricardo Cavallo.

Due persone discutono
Prima di lasciare Locarno, Schroeder ha concesso un’intervista a SWI swissinfo.ch in cui ha parlato della sua famiglia, della sua relazione con Eric Rohmer e dell’attuale panorama cinematografico. swissinfo.ch

SWI swissinfo.ch: Lei ha un nome tedesco, ma la sua lingua madre è il francese, vero?

Barbet Schroeder: Sì, mio padre ha un nome tedesco perché la sua famiglia si è trasferita a Ginevra da Amburgo. Io sono diventato ultra-svizzero. Mia madre non voleva parlare tedesco a causa della Seconda guerra mondiale; quindi, ha scelto un uomo che parlava francese.

Sua madre era ebrea?

Era molto vicina a persone di fede ebraica e tutta la sua vita ha avuto amicizie ebree.

Quindi a casa non parlava mai il tedesco?

Mai.

E lei sa parlare il tedesco?

Per niente. Neanche una parola.

Il suo interesse per il cinema è nato quando era bambino?

No. Quando sono andato a vedere il mio primo film mi hanno portato fuori dalla sala perché stavo piangendo e mia madre decise che i film non facevano per me, perché ero troppo sensibile. E il film era Bambi. Solo anni dopo, quando eravamo già a Parigi, iniziai a guardare film alla Cinémathèque. Ma non andavo al cinema come era normale per gli altri bambini.

La sua carriera cinematografica è vasta e ha svolto ruoli di ogni tipo: regista, produttore, attore ….

Può stralciare produttore e attore. La mia vita è dirigere film.

Ha cominciato facendo l’assistente per registi della Nouvelle Vague, come Godard …

Avevo un maestro, Eric Rohmer. Un giorno sono andato negli uffici della rivista Cahiersdu Cinéma per cui lavorava come critico cinematografico. L’ho avvicinato e gli ho detto quanto ammirassi il suo lavoro. E lui ha detto: “Sai cosa? Mi puoi aiutare”. Quindi abbiamo cominciato a fare film insieme.

Poi però è stato licenziato dalla rivista. È stato Jacques Rivetta a licenziarlo e Rohmer si è trovato improvvisamente per strada senza soldi. Ero con lui quel giorno. Disse: “Beh, immagino che lancerò un’altra rivista come i Cahiers“. Al che gli ho risposto: “No, domani andrò a depositare i documenti per creare una compagnia cinematografica [Les Films du Losange] e tu ne farai parte”.

Avevo 21 anni! E ho detto che avremmo fatto i suoi film e i film di altri grandi registi. Ed è quello che è successo.

Questa collaborazione è durata fino alla morte di Rohmer. Può condividere con noi un ricordo che le è caro del regista?

Ce ne sono così tanti … Ma una volta stavamo girando qualcosa, credo fosse Le Genou de Claire (Il ginocchio di Claire, 1970). In una scena l’attore doveva raccogliere un fiore. Quando eravamo ancora in preproduzione, Rohmer aveva piantato il fiore in modo che potesse crescere in tempo per essere usato nel film. Ci siamo occupati della pianta e il fiore è sbocciato proprio nel giorno in cui ne avevamo bisogno per la scena.

Con Rohmer, a parte i dialoghi, non c’era nessuna improvvisazione nella realizzazione di un film. Tutto era preparato nei minimi dettagli. Sapevamo esattamente dove e quando avremmo girato. È stata una lezione importante.  

Com’era la sua relazione con Godard, invece?

Ho fatto l’assistente nel film Les Carabiniers (1963) e in seguito sono stato produttore per il suo contributo al film collaborativo Paris vu par … (Parigi di notte, 1965). Era una persona magnifica, molto intelligente e spiritosa.

Cosa pensa del modo in cui ha deciso di morire, ricorrendo al suicidio assistito?

Lo ammiro molto per questo. È stato molto ben pianificato. Se mi trovassi nella stessa situazione farei lo stesso.

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Lei è anche vicino a cineasti della sua stessa generazione, come Fredi M. Murer o Daniel Schmid?

Daniel Schmid (1941-2006) era il mio amico più caro. È stato molto importante per me conoscere e capire la Svizzera attraverso i suoi occhi.

Come è stata la transizione dalla Nouvelle Vague francese a Hollywood?

Ho sempre pensato che un giorno sarei andato a Hollywood. Per me, il cinema era Hollywood. Il mio primo film, More, era una produzione hollywoodiana. Era in inglese, con un’attrice statunitense [Mimsy Farmer] quindi considero il mio primo film un film americano.

Hollywood era come se l’aspettava?

Certo! Sapevo già come si facevano i film lì. Ed è un lusso incredibile poter fare film in quel modo. Qualsiasi cosa si voglia, la si può ottenere. La maggior parte del tempo, quando si fanno film con pochi soldi, non si riesce neanche ad avere le cose necessarie.

Va detto che non girerei mai un film il cui il montaggio finale non sia fatto a modo mio. E nessuno dei miei progetti a Hollywood è stato fatto solo per soldi.

Le piacerebbe girare anche oggi un film hollywoodiano?

No, perché non mi piacciono gli effetti speciali. È noioso passare le giornate di fronte a uno schermo. Naturalmente, se ci sono una storia magnifica e grandi interpreti, vale sempre la pena. Ma tutto il tempo che ci vuole per fare gli effetti speciali è un aspetto che non mi piace. E ormai non fanno più nessun film senza.

Lei ha lavorato a diversi progetti conosciuti in seguito come “La Trilogia del Male”, che include i film General Idi Amin Dada: A Self Portrait (1974) Terror’s Advocate (L’avvocato del terrore, 2007) e The Venerable W. (Il venerabile W., 2016). Ha previsto altri film sulla stessa linea?

Li avevo, ma non sono mai stati realizzati. Ce n’era uno sugli Khmer rossi e Pol Pot, un altro sull’ex presidente argentina Isabelita Perón, che non riuscì ad emulare Eva Perón, Evita, e fu rovesciata con un colpo di Stato militare nel 1976, e alcuni altri. Sfortunatamente, ci sono infiniti temi disponibili per cercare di capire il male. Ma penso di aver rinunciato perché sono arrivato alla conclusione che non c’è un vero e proprio male, è solo parte dell’umanità.

Se avesse l’opportunità o la volontà di fare un altro film simile oggi, su cosa si concentrerebbe?

C’è un uomo di cui bisognerebbe parlare, quello che ha rimpiazzato Idi Amin Dada, Yowei Museveni. È una persona orribile. Ha fatto passare una legge in Uganda che rende illegale ogni tipo di relazione omosessuale. Come presidente è addirittura peggio di Amin Dada. È quello che ha avuto il coraggio, o meglio la debolezza, di far passare queste leggi e di definire una tendenza che si è diffusa in Kenya e in altri Paesi africani.

Nel suo ultimo film, condivide con il pubblico il punto di vista di Ricardo Cavallo sull’arte. Lei è anche un collezionista d’arte?

Ho iniziato un po’, ma la maggior parte della mia collezione consiste di lavori di Cavallo. Recentemente mi sono interessato anche a un artista svizzero morto da qualche anno, Jürg Kreienbühl. Secondo me era un genio assoluto e ho alcune delle sue opere.

Il suo interesse per l’arte è recente?

No, è di lunga data. Mi è stato trasmesso da mia madre che non sapeva cosa fare con noi, mia sorella ed io, quando arrivammo a Parigi. Non conosceva nessuno e ha deciso di usare il Louvre come garderie (doposcuola). Quindi abbiamo potuto vedere molte, molte cose in quelle ore. Ci ha segnato profondamente.

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