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Lo Stato “banchiere suo malgrado”

Persone in fila
Nel 1931 ci fu una corsa agli sportelli della Banca popolare svizzera. Keystone

Quello di Credit Suisse non è stato il secondo, e quello di UBS il primo, salvataggio statale di una grande banca in Svizzera. Già durante la crisi economica mondiale, la Confederazione ha dovuto togliere d'impiccio la Banca popolare svizzera, prossima al collasso – con il supporto di una decisione parlamentare.

Sabato 19 novembre 1933, alle 11:00 del mattino, il Dipartimento federale delle finanze annunciò che la Banca popolare svizzera (BPS) avrebbe “effettuato una riorganizzazione” e che la Confederazione avrebbe investito 100 milioni di franchi nella banca. Un evento senza precedenti: lo Stato salvava una grande banca con una somma pari a un quarto delle spese annuali del Paese.

Circa un mese prima, la direzione della BPS aveva chiesto al Consiglio federale un sostegno statale. Era giunta alla conclusione che la banca in difficoltà non sarebbe riuscita a ristrutturarsi con le sue sole forze.

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La richiesta non fu una sorpresa. Da tempo era chiaro all’opinione pubblica che la BPS non era nelle migliori condizioni. Già alla fine di settembre 1931 si erano formate lunghe code davanti alle filiali perché la clientela zurighese insoddisfatta aveva iniziato a prelevare i suoi risparmi. Persino la Frankfurter Zeitung riportò la notizia di “una corsa agli sportelli della Banca popolare svizzera”. Grazie però ai messaggi tranquillizzanti della direzione della banca, delle autorità e anche della stampa, qualche giorno dopo tornò la calma, almeno in apparenza.

Banca della classe media

All’epoca, il panorama bancario svizzero era strutturato in modo simile a quello odierno: le banche cantonali di proprietà statale dominavano il mercato svizzero, mentre le grandi banche erano attrici importanti all’internazionale. Delle otto grandi banche di allora le tre più importanti erano il Credito svizzero (CS, poi Credit Suisse), l’Unione di banche svizzere (in seguito confluita in UBS) e la BPS (che negli anni Novanta si sarebbe fusa con CS).

Sebbene la BPS fosse la seconda banca del Paese, con un attivo totale di circa 1,7 miliardi di franchi e circa 1’600 dipendenti, non era considerata una grande banca “tipica”. Non era organizzata come una società per azioni, ma come una cooperativa e la sua fitta rete di filiali era molto più attiva in Svizzera che all’estero.

La BPS era considerata una “banca del ceto medio” per piccoli risparmiatori e piccole imprese. “I risparmiatori acquistavano obbligazioni e diventavano soci della cooperativa. Alcune famiglie investivano tutti i loro risparmi nella Banca popolare”, spiegò in seguito il Consiglio federale.

Questa non era però tutta la verità. La BPS aveva da tempo ampliato l’attività, concedendo sempre più spesso prestiti a grandi imprese e investendo in modo importante all’estero. Ciò non era in contraddizione con l’immagine di banca del ceto medio, ma piuttosto una conseguenza. Negli anni di crisi dopo la Prima guerra mondiale, la BPS subì pesanti perdite, soprattutto a causa dei prestiti concessi alle imprese familiari svizzere attive nei settori tessile, orologiero e alberghiero. Non volendo far ricadere queste perdite sui soci, la BPS tentò di compensarle con attività estere.

La strategia ebbe successo inizialmente, ma le attività estere erano rischiose e l’istituto bancario non aveva le competenze necessarie per gestirle. Ciò diventò chiaro quando nel 1929 fu scoperta una frode presso una grande azienda francese di cui la BPS fu una delle principali vittime.

I soci della cooperativa chiesero a gran voce il ritorno alla classica attività di “banca popolare”. La BPS non era “una grande banca, ma una banca di medie dimensioni divenuta grande”, dissero durante un’assemblea. La nuova direzione della banca cercò di cambiare le cose. Tuttavia, per quanto buone fossero le misure adottate, era ormai troppo tardi: il crollo della borsa di New York del 1929 si stava trasformando sempre di più in una crisi globale che portò quasi tutte le grandi banche a perdite immense.

Il salvataggio statale

Dopo la corsa agli sportelli del 1931, la “ristrutturazione” della BPS diventò un argomento costantemente all’ordine del giorno per il Governo federale e per la Banca nazionale svizzera (BNS). Dietro le quinte fu adottata una norma estremamente insolita: Alfred Hirs, ex funzionario della BNS, fu nominato responsabile della crisi della BPS e riferiva costantemente alla BNS informazioni riguardo ai processi interni della banca in difficoltà. In linea di principio, la BNS era disposta a fornire un sostegno statale, ma non voleva che se ne discutesse pubblicamente. Sarebbe stato “particolarmente pericoloso” in quel momento.

All’esterno, la dirigenza della BPS continuava a mostrarsi fiduciosa e i dividendi venivano distribuiti ai soci della cooperativa, ma all’interno la situazione si stava deteriorando a quasi tutti i livelli. I presiti non venivano rimborsati, i clienti ritiravano i depositi e i membri della cooperativa prelevavano le loro quote sociali – e non c’erano altre banche in grado di intervenire per aiutare.

Diventò sempre più chiaro che senza un rapido “aiuto di Stato” la banca sarebbe presto crollata completamente. Le autorità imposero un ritmo frenetico all’intervento. Dalla richiesta della BPS al Consiglio federale fino alla risoluzione parlamentare finale dell’8 dicembre del 1933 “sulla partecipazione finanziaria della Confederazione alla riorganizzazione della Banca popolare svizzera” passarono meno di due mesi.

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Gruppo di banchieri per strada

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La Confederazione era divenuta “banchiera suo malgrado”, sintetizzò il quotidiano Der Bund. Anche se confrontata con una forte pressione, la procedura fu infine approvata dal Parlamento che, così facendo, scavalcò i membri della cooperativa BPS conferendo ampi poteri al Consiglio federale e evitando che la decisione fosse sottoposta a referendum. Il consigliere federale Edmund Schulthess spiegò in seguito che le misure di emergenza erano “nell’interesse della salvaguardia della nostra economia”.

La necessità di un’operazione statale di salvataggio per la BPS era indiscussa da tutti i partiti e dall’intero panorama giornalistico. Ciò era fortemente legato alla natura cooperativa della banca. “Nessun altro istituto di credito raggiunge così profondamente tutti gli ambienti del popolo”, scriveva Der Bund. Dall’estrema sinistra all’estrema destra c’era accordo sul fatto che dovesse essere salvata “per evitare che i piccoli risparmiatori perdano il loro denaro”, secondo il Basler Vorvärts, di sinistra.

C’era meno unanimità nell’ambito dell’immediata ricerca di persone responsabili del crollo. Mentre la stampa di sinistra puntava il dito contro i rappresentanti liberali nel consiglio di amministrazione, i giornali liberali additavano un problema più generale nel funzionamento cooperativo dell’istituto. Un punto per cui invece l’unanimità si trovava era il seguente: un simile salvataggio da parte dello Stato non sarebbe mai più dovuto accadere.   

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60 anni dopo il salvataggio, la BPS è stata fusa nel Credito svizzero, poi Credit Suisse. Keystone / Str

Da qui la rivalutazione politica e la richiesta di norme giuridiche. Anche il ministro delle finanze Jean-Marie Musi era dell’opinione che la prima legge bancaria svizzera, nel cassetto da qualche tempo, non potesse essere rimandata ancora a lungo. La bozza di legge venne riesumata, approdò in Parlamento in febbraio e fu approvata nel settembre 1934. Il testo non solo descriveva per la prima volta il segreto bancario, ma anche una supervisione più efficace possibile per garantire maggiore sicurezza.

L’intervento pubblico in caso di emergenze, tuttavia, non fu regolamentato. Per i successivi 75 anni si pensò che quello di BPS fosse un caso unico, un’eccezione. Dopo la Seconda guerra mondiale, la Confederazione riuscì a ridurre la sua partecipazione nella BPS, la quale fu rilevata da Credit Suisse nel 1993 – e salvata ancora una volta dallo Stato nel 2023.

Traduzione: Zeno Zoccatelli

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