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Com’è cambiato il modo di affrontare i disastri naturali?

Volantino con caratteri medievali e illustrazione di un centro cittadino con simboli in cielo
In passato, il cielo era pieno di segni divini. Oggi è un po' più complicato. (Opuscolo, Basilea, 1566) Zentralbibliothek Zürich

La gestione delle catastrofi naturali ha rafforzato il ruolo dello Stato in Svizzera nel XIX secolo. Tempeste, alluvioni e frane non furono più viste come punizioni divine, ma come problemi da affrontare insieme. La questione della colpa e della responsabilità fu resa tabù in nome di un presunto bene comune: un atteggiamento che talvolta influenza il dibattito ancora oggi.

Il tempo meteorologico, a lungo il più innocuo degli argomenti di conversazione, è entrato da un pezzo anche nel dibattito politico. In un’epoca di cambiamenti climatici, le gravi intemperie o catastrofi naturali non possono più essere nettamente distinte dalle azioni umane, poiché il tempo è influenzato dal nostro stile di vita.

Alcuni, come il meteorologo Jörg Kachelmann, vedono le tempeste delle ultime settimane come “l’inizio della miseria”. Altri lo trovano esagerato e parlano di “isteria climatica”, richiamando a una maggiore serenità. Tra questi Franz Steinegger, ex presidente del Partito liberale radicale svizzero, soprannominato ‘Katastrophen-Franz’ per la sua grande esperienza nella gestione di situazioni di crisi nel canton Uri. In un’intervista al Tages-Anzeiger, alla domanda se la gente di città reagisce diversamente ai disastri naturali rispetto alla popolazione rurale, Steinegger risponde:

“In campagna, si reagisce con più calma. La gente di campagna ha tutta già vissuto eventi simili ed è più disposta ad accettarli come derivanti dalla volontà di Dio”.

I disastri come schiaffi divini

Quel che sembra saggezza secolare maturata tra le mura di una fredda cappella alpestre è in realtà una visione piuttosto recente. Fino a qualche centinaio di anni fa, le catastrofi non erano affatto qualcosa che si potesse accettare “con calma”. Allo stesso modo in cui i genitori educavano i loro figli con la verga, Dio mostrava la via con segnali terrificanti: catastrofi come le sette piaghe bibliche e il diluvio erano dei messaggi.

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Mentre la gente di campagna metteva burro e latte sul davanzale della finestra per cercare di placare le ire del Signore, i teologi riflettevano su come interpretare questi sermoni non verbali. Erano in difficoltà, perché coloro che morirono ad esempio nel grande terremoto di Lisbona del 1755 non potevano essere tutti peccatori: tra loro c’erano anche bambini e timorati di Dio.

Una risposta era che egli punisse anche chi non aveva fatto nulla per arginare il peccato. Scrive lo storico ambientale svizzero Christian Pfister: “La comunità era considerata collettivamente responsabile dei peccati commessi dai suoi membri, ciò che rendeva semplice distogliere la colpa dai responsabili e distribuirla su tutti”. Una forma di condivisione che rese il senso di colpa anche meno opprimente.

Illustrazione a china di un ondata di acqua che travolge villaggi con ponti ed edifici medievali
Il cronista Johannes Stumpf vide la devastante ondata di acqua e fango che travolse il Ticino nel 1515 (la Buzza di Biasca) come una chiamata di Dio a “cambiare le nostre vite peccaminose”. lanostoria.ch

Crescere con le catastrofi

Non considerare più gli inspiegabili disastri naturali come una punizione per i peccati individuali fu una grande conquista, poiché laddove questo non accadde la gente finì per reagire alle estati di siccità mettendo al rogo donne che si supponeva fossero streghe. Solo attraverso la condivisione delle colpe, le catastrofi si trasformarono in eventi sui quali il collettivo poteva affiatarsi.

Raramente il sentimento di appartenenza è così grande come dopo eventi terribili che possono essere attribuiti a forze esterne, quali guerre e catastrofi. I politici ne sono consapevoli ancora oggi: basta un’espressione del volto sbagliata mentre si visita una regione colpita da un disastro per vedere fortemente vacillare la propria carriera.

E così anche le frane, le tempeste e le alluvioni -proprio per il loro potere di aggregazione- sono state importanti per la crescita del sentimento nazionale nel nostro Paese. Quando la frana di Goldau uccise oltre 400 persone e devastò un intero villaggio nel 1806, l’aiuto in caso di catastrofe fu proclamato per la prima volta quale elemento unificante.

Andreas Merian, in quell’anno Landamano della Svizzera nominato da Napoleone, vedeva nell’aiuto reciproco una forza collettiva:

“Attraverso la sua donazione, ogni svizzero promuove il bene comune, poiché la gratitudine delle persone confortate contribuisce al sentimento nazionale, l’armonia confederale, l’autentica fratellanza”

Merian cercò di trasformare il senso di colpa di matrice religiosa in solidarietà repubblicana. Ebbe successo: donazioni ed espressioni di solidarietà raggiunsero Goldau da tutti i cantoni. Una prima nella storia della Svizzera, che aveva sì visto interventi di soccorso sporadici, ma mai un aiuto concertato da tutti a favore di un singolo.

Monumenti nazionali di protezione dalle inondazioni

Bergsturz
Attraverso la vendita di immagini della distruzione, il governo di Svitto voleva raccogliere fondi e attenzione per le vittime. David Alois Schmid, 1806 Schweizer Landesbibliothek

Le catastrofi naturali hanno aiutato lo Stato svizzero a trovare il suo ruolo. Nel XIX secolo, l’aiuto in caso di catastrofe passò sempre più da istituzioni private che organizzavano raccolte fondi alle mani della Confederazione. Nel 1834, quando il Paese era fortemente diviso, le inondazioni devastarono gran parte della Svizzera. Fu la Dieta federale, organo centrale della Confederazione, a coordinare la raccolta fondi e negoziare con i cantoni su come impiegare più opportunamente il denaro. La carità fece spazio alla ragion di Stato: benché le donazioni fossero state raccolte per compassione verso le persone colpite, nei Grigioni per esempio il denaro fu usato principalmente per le opere di protezione dalle inondazioni, al fine di prevenire future catastrofi. I fondi fluirono quindi perlopiù nelle casse degli appaltatori edili, mentre le vittime delle alluvioni ricevettero poco e spesso caddero in profonda povertà nonostante le donazioni, che furono insomma destinate allo sviluppo delle regioni colpite piuttosto che agli aiuti diretti.

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disegno che mostra delle case su un isolotto circondato dall acqua

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La catastrofe naturale che ha cambiato la Svizzera

Questo contenuto è stato pubblicato al L’inondazione che ha colpito la Svizzera nel 1868 ha seminato morte e distruzione. Ha però anche favorito la coesione del giovane Stato federale.

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Le rettifiche dei corsi dei fiumi con i loro argini costruiti dopo il 1834 furono visti come monumenti dell’unità nazionale. Nel 1869, ad esempio, il Consiglio federale rimproverò al Vallese -il quale trentacinque anni prima non si era lasciato convincere dal programma di infrastrutture e aveva distribuito le donazioni ai privati- che in tale Cantone la solidarietà nazionale non era “incarnata da nessun monumento che avrebbe potuto salvare il Paese da simili catastrofi”.

Nel 1868, un altro disastro colpì la Svizzera. Le forti piogge causarono la morte di 51 persone e danni materiali enormi. Se nel 1834 la protezione dalle inondazioni era ancora nelle mani dei Cantoni, questa volta fu il Consiglio federale a prendere le redini. Anche la colletta nazionale fu guidata dallo Stato, che raccolse 3,6 milioni di franchi e oltre tre tonnellate di cibo. “Uno per tutti, tutti per uno” divenne il motto nazionale non ufficiale e si posero delle basi legali per la preparazione alle catastrofi che sono importanti ancora oggi.

Vietato cercare il colpevole

Attraverso questa cultura del coinvolgimento, gli inspiegabili segni del cielo hanno dunque potuto essere sopportati collettivamente. Al contempo, però, si è tacitamente convenuto di parlare meno delle cause dei disastri e maggiormente di aiuti, infrastrutture e gestione delle crisi.

Un esempio lampante è la frana di Elm del 1881. Nelle Alpi Glaronesi si trova una preziosa ardesia, che a Elm veniva sfruttata commercialmente dal 1868. Complice l’inesperienza dei politici comunali responsabili, la gestione delle cave fu però negligente: elementi portanti furono fatti saltare, i cambiamenti nella montagna ignorati e chi tentò di mettere in guardia dai pericoli fu deriso; troppi posti di lavoro e troppi soldi dipendevano dall’ardesia estratta. Nemmeno quando crollarono grandi parti dell’alpe sopra la cava ed entrò l’acqua ci fu una reazione. Alla fine, morirono 141 persone.

Eppure, nessuno fu ritenuto responsabile. Una delle ragioni è che la stampa non volle compromettere la campagna di raccolta fondi, estremamente necessaria per gli abitanti di Elm, ai quali peraltro fu chiesto di astenersi dalle “lamentele” di fronte alla tragedia. La gente di Elm doveva apparire come innocente e sopraffatta dalle “cieche forze della natura”, gente di montagna che per una volta era stata sconfitta nella quotidiana battaglia contro una natura spietata. Se questo fu possibile, è grazie a una visione fondamentalmente cambiata dei disastri naturali. Non erano più segnali per i peccatori, ma qualcosa le cui cause non avevano neanche bisogno di essere indagate, si trattava solo di accettare il corso degli eventi: le vie del Signore sono imperscrutabili. Questo atteggiamento lasciò sbalordito il professore di geologia Albert Heim, chiamato a scrivere una perizia sulla frana:

“Nel complesso, il comportamento della stragrande maggioranza delle persone prima della frana mi dà l’impressione di una sorta di infezione psichica o ipnosi. La gente si oppone alla paura, schernisce i timorosi, allontana con forza la cognizione della portata dei segni premonitori e si culla nella negazione del pericolo. Questo stupido atteggiamento si diffonde in tutta la popolazione e i fautori di questa tattica dello struzzo si permettono le più grandi distorsioni della verità, potendo contare sul fatto che si è molto più inclini a credere al piacevole che al temuto”.

Bibliografia: Pfister, Christian (a cura di): Am Tag danach. Zur Bewältigung von Naturkatastrophen in der Schweiz 1500 – 2000. Haupt Verlag, 2002. 

Traduzione di Rino Scarcelli

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