Moda sostenibile, quando gli scarti tessili diventano capi di design
Un gruppo di stiliste e stilisti svizzeri ed egiziani si sono uniti per combattere l'industria della fast fashion e creare capi unici con tessuti recuperati.
In una fredda serata di marzo, un gruppo di “rivoluzionari della moda” ha mostrato cosa si può fare con tessuti riciclati e un po’ di fantasia. Si sono ritrovati alla Maison Shift, un edificio abbandonato nel centro di Zurigo un tempo utilizzato come poligono di tiro dalla polizia locale e oggi riconvertito dal movimento Fashion Revolution in luogo di scambio e formazione per designer tessili con progetti sostenibili.
Sono stilisti e stiliste provenienti da mondi diversi, ma convergenti: da una parte, gli ambienti del design svizzero alternativo e anticonformista, dall’altra quello della piccola imprenditoria egiziana che sperimenta con forme di moda non commerciale.
Due di loro non potrebbero essere più diversi: Bassant Maximus, 29 anni e una frangia nera che le copre gli occhi, disegna vestiti da sposa al Cairo. Jonas Peter Schneider detto “Jope”, stessa età, barba bionda da hipster e berretto di lana, vive a Zurigo e crea cappellini con materiali di recupero. Lei lavora in maniera disciplinata e meticolosa e si definisce un’amante della perfezione. Lui improvvisa a seconda dell’estro del giorno e dei materiali di seconda mano che trova.
Eppure, qualcosa in comune Bassant e Jope ce l’hanno: la passione per il design partendo da tessuti usati, che hanno una storia da raccontare. Entrambi hanno partecipato a una residenza di moda, che si è svolta prima al Cairo e poi a Zurigo, organizzata da Fashion Revolution a cavallo tra il 2022 e il 2023.
Fashion revolution è un movimento globale che promuove un’industria della moda rispettosa dei diritti umani e dell’ambiente. Le ideatrici sono state due stiliste: l’italiana (residente a Londra) Orsola de Castro e la britannica Carry Somers. Negli anni il movimento si è ampliato e oggi è presente in 14 Paesi. La residenza di moda, a cui hanno partecipato tre designer svizzeri e due egiziane, è stata sponsorizzata dalla fondazione svizzera per la cultura e l’arte Pro Helvetia con una somma pari a circa 45’000 franchi.
Fashion Revolution combatte contro l’industria della moda usa e getta, o “fast fashion”, dal 2013, da quando cioè 1’134 lavoratrici e lavoratori tessili hanno perso la vita nel crollo di un edificio commerciale in cattive condizioni in Bangladesh. La tragedia del “Rana Plaza” ha messo in luce la brutalità del settore tessile, il cui unico obiettivo è la sovrapproduzione di capi di scarsa qualità e breve durata. Dal 2016 Fashion Revolution è attiva anche in Svizzera, dove la fast fashion ha quasi il monopolio del mercato dell’abbigliamento, nonostante l’alto potere d’acquisto della popolazione.
Bassant e Jope sono tra coloro che si ribellano a questo sistema basato sul consumo eccessivo e veloce di tessuti che finiscono presto sulle bancarelle dell’usato o nelle discariche. Partendo da ambienti e storie diversi, entrambi hanno fatto degli scarti tessili la loro arte.
>> VIDEO: Cosa succede quando designer svizzeri ed egiziane si incontrano:
“Tutto può diventare un cappello”
In Svizzera, Jope lavora da sempre con oggetti e materiali recuperati – dai divani trovati per strada alle borse per la spazzatura. Giocando con rifiuti di qualsiasi tipo, si diverte a combinarli nei modi più bizzarri per trasformarli in berretti e capi d’abbigliamento di design. Questo processo sta alla base dell’upcycling, che non significa solo “riciclare”, ma dare una nuova vita e dignità a prodotti di scarto.
Una volta arrivato al Cairo, Jope si è sentito subito a casa: ha imparato a dire in arabo “io cucio” e ha utilizzato questa frase come lasciapassare nelle discariche e nei mercatini. “Al Cairo è fantastico, si trovano risorse tessili e scarti ovunque: per strada, per terra, nei diversi mercati”, dice.
I cappellini che ha realizzato durante la residenza di sei settimane nella capitale egiziana incarnano la quintessenza delle tradizioni locali e della vita di strada: non solo tessuti, ma anche pezzi di metallo e scarti elettronici. Su un cappello realizzato in spugna di luffa, tipica in Egitto, lo stilista ha cucito una visiera fatta con la copertina di un quaderno, ricevuto durante un laboratorio di ricamo, e un pezzo di stoffa bianca trovato sulla corniche lungo il Nilo. Su un altro cappello a costine beige compare la scritta plastificata “Ahlan” (“benvenuto” in arabo).
È come se ogni berretto mostrasse il Cairo sotto una luce differente, a volte più convenzionale, a volte del tutto astratta. “Tutto può essere o diventare un cappello”, dice Jope, mentre ci racconta come la caotica città egiziana abbia acceso la sua creatività.
Sfidare i canoni estetici
Jope si è divertito anche a fare degli esperimenti sociali: ha girato per le affollate strade cairote con indosso i suoi berretti per carpire la reazione delle persone di fronte alla sua moda fuori dagli schemi ed estranea ai canoni estetici locali. Il modo di abbigliarsi può cambiare molto in Egitto a seconda della classe sociale di appartenenza. Negli ambienti in cui la religione ha un peso preponderante, la copertura del capo ha un forte valore estetico e religioso, sia per gli uomini che per le donne. “È stato eccitante vedere come reagivano le persone del posto vedendo i miei copricapi”.
Anche Bassant ha messo alla prova i canoni estetici e sociali locali. Stilista di abiti di sposa di giorno e youtuber che dà consigli su come recuperare vestiti usati di notte, Bassant ha cominciato un po’ per caso a fare upcycling cinque anni fa. “Non sapevo nemmeno che esistesse il termine ‘sostenibilità’. Poi mi sono ritrovata con un sacco di roba usata che non mi piaceva molto, ma mi piaceva il materiale. Ecco com’è cominciato tutto”, racconta.
Bassant spiega che al Cairo c’è una sorta di stigma verso la moda di seconda mano. Nelle famiglie meno abbienti è normale riutilizzare e trasformare tessuti esistenti, anche se in scala più ridotta: per questo chi è ricco lo ha sempre dimostrato sfoggiando capi nuovi. Ora però il vento sta cambiando anche per effetto della globalizzazione, che ha invaso la capitale egiziana di montagne di vestiti di bassa qualità e privi di qualsiasi impronta culturale.
Attraverso l’upcycling, Bassant ha riscoperto i capi fatti a mano della tradizione locale e li ha reinventati in chiave moderna, sfidando l’estetica di genere, rigidamente connotata nella società egiziana. I vestiti tipicamente maschili indossati nel Sud dell’Egitto, per esempio, potrebbero sembrare più femminili da un punto di vista europeo. Cambiando alcuni dettagli e cuciture, l’abito diventa subito femminile anche agli occhi di un uomo egiziano. “Mi piace lavorare con l’idea: ‘è più femminile o è più maschile? Cos’è questo capo’?”, afferma Bassant.
La stilista ci mostra una tunica marrone da uomo trasformata in una tuta intera. “Paradossalmente, ora che ha il pantalone, un uomo egiziano non la porterebbe mai”, dice, sorridendo.
Tra tradizione e modernità
Durante la sua residenza in Svizzera, Bassant ha sfruttato il ritmo più lento e meno serrato delle giornate zurighesi per dedicarsi al ricamo. “Al Cairo è tutto veloce e caotico, non avrei mai avuto il tempo di sedermi e lavorare a mano”, dice. Girovagando per i brocchi, i negozi che rivendono mobili e altri oggetti casalinghi più o meno antichi di cui la gente vuole liberarsi, è rimasta affascinata dai molti articoli ricamati, tipici della tradizione elvetica.
Ricamare l’ha ispirata molto. Ha trasformato una tovaglia, una tenda e un tovagliolo in una gonna a ruota, una camicia e una borsetta vintage alla moda. “Le persone si sbarazzano di un sacco di cose che hanno a casa ma che sono in ottime condizioni e sono fatte con cura e amore”. Bassant ci mostra il dettaglio di uno specchio ricamato nel classico punto croce svizzero, dove spesso il motivo centrale viene incorniciato così da mettere in risalto il tessuto a quadri. “È evidente che questi non sono lavori a macchina, ci sono delle mani dietro.”
Un passato da recuperare
Tra il XIX e il XX secolo, i ricami di San Gallo e Appenzello, nella Svizzera orientale, erano famosi e apprezzati in tutto il mondo. Anche Zurigo prosperò a metà dell’‘800 grazie alla sua industria tessile legata alla produzione di stoffe di seta.
Oggi, a Zurigo è rimasto poco di questo passato tessile glorioso. Gli edifici che un tempo appartenevano alle famiglie che producevano stoffe di seta sono oggi occupati da banche e società immobiliari. La Maison Shift, che aprirà ufficialmente i battenti alla fine di maggio, è un tentativo di riportare in auge il design tessile di qualità nella regione, mettendo l’ecologia al centro.
Non a caso, il progetto è stato sponsorizzato con una somma importante (non specificata) dall’Associazione dell’industria della seta di Zurigo. “Se si vuole cambiare la mentalità delle consumatrici e dei consumatori, bisogna partire dal mondo in cui i capi sono concepiti”, dice Susanne Rudolf, co-direttrice di Fashion Revolution Svizzera. Questo vale non solo in Svizzera e in Egitto, ma in qualsiasi altra parte del mondo.
A cura di David Eugster
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