Perché abbiamo paura del velo?
Da più di un secolo e non solo in tempi recenti, il velo polarizza l’opinione pubblica e il dibattito politico. Questo capo di abbigliamento è diventato il simbolo, così come il minareto, dell’Islam, sostiene Claudia Lazzarini, autrice di una tesi di dottorato. Intervista.
Durante il periodo coloniale è stato scelto come simbolo della discriminazione delle donne e dell’arretratezza dell’Islam rispetto agli Stati europei. E questo stereotipo è giunto fino ai giorni nostri.
È un’immagine che si è radicata nella memoria dell’Occidente. Così, da anni questo innocuo capo d’abbigliamento infiamma le discussioni e lo scontro politico e fa scorrere fiumi d’inchiostro.
Claudia Lazzarini nella sua tesi di dottorato tenta di ripercorrere le vicende del velo attraverso i secoli e scopre che anche oggi, come cento anni fa, il velo viene sfruttato a fini politici. «Si fa leva sulla paura della gente nei confronti del diverso, dell’ignoto», afferma Lazzarini.
«Il libro cerca di sfatare alcuni pregiudizi e malintesi sull’Islam e di riordinare un po’ le idee. Vuole inoltre favorire il dialogo: chi lo legge, infatti, riuscirà forse a non farsi trascinare dall’emozione nell’attuale dibattito».
swissinfo.ch: In quale periodo storico il velo si trasforma da semplice capo d’abbigliamento a strumento di lotta politica?
Claudia Lazzarini: Nel periodo coloniale il velo viene vietato in alcuni Paesi arabi ed è in questo contesto che assume grande importanza. Prima di allora era considerato un semplice capo d’abbigliamento che faceva semplicemente parte della cultura musulmana.
Fra il XVIII e XIX secolo, il velo è stato scelto dagli Stati coloniali come simbolo della discriminazione e sottomissione delle donne, dell’arretratezza e del conservatorismo dei Paesi islamici. Vietarlo significava favorire la modernità e liberare la donna dalla sua inferiorità rispetto all’uomo. Questo era almeno ciò che volevano far credere coloro che lo proibirono. L’obiettivo era però un altro.
swissinfo.ch: Quale?
C.L.: In Algeria – per esempio – i francesi tentarono di spezzare l’opposizione delle popolazioni autoctone, alle quali avevano sottratto le terre migliori, stravolgendo le strutture sociali tradizionali. In questa lotta per il potere, la donna assunse un ruolo fondamentale: doveva trasmettere infatti i valori occidentali ai cittadini di domani.
Inizialmente, i francesi barattarono il velo con la distribuzione gratuita di cibo e con la possibilità di frequentare una formazione scolastica. Con il passare degli anni, questo capo d’abbigliamento e la donna assunsero un ruolo sempre maggiore nella lotta per l’indipendenza del Paese. Il velo, oltre a permettere loro di nascondere le armi, le identificava come militanti per la liberazione.
swissinfo.ch: Ma la donna ha potuto trarre dei vantaggi da questa situazione?
C.L.: Bisogna distinguere fra donne abbienti e donne del ceto medio e basso, fra donne di città e di campagna. In Iran – per esempio – le riforme avviate da Reza Pahlavi [il penultimo Scià di Persia, governò il Paese dal 1926 al 1941, ndr.] quali l’industrializzazione, la secolarizzazione dell’istruzione e la proibizione di portare dei vestiti tradizionali, sia per le donne che per gli uomini, vennero salutate favorevolmente dalle donne dell’aristocrazia cittadina.
Per la maggior parte delle donne iraniane, invece, la situazione peggiorò notevolmente, soprattutto a causa del divieto di portare il velo. Cresciute con questo capo d’abbigliamento, lo consideravano indispensabile per uscire all’aperto e fondamento della morale e del decoro. Senza, si sentivano “nude”. Il divieto le relegò quindi in casa.
Molte lavoravano nell’industria dei tappeti. Questa attività dava loro una certa indipendenza finanziaria e permetteva loro di intrattenere dei contatti sociali. Con la proibizione di portare il velo, la donna venne isolata e costretta a rimanere fra le mura domestiche a lavorare.
swissinfo.ch: Ora, anche in Svizzera, il velo è una fonte inesauribile di discussione. Con quali conseguenze?
C.L.: Focalizzando tanto la nostra attenzione su un capo d’abbigliamento innocuo, rischiamo di farlo diventare un problema per la nostra società. Si rischia di favorire l’insorgere di posizioni contrapposte e radicali. Ed è ciò che sembra stia succedendo in questo momento nel nostro Paese. Infatti, da una parte c’è chi demonizza il velo, dall’altra c’è invece chi lo idealizza, fenomeno che si osserva – per esempio – fra i convertiti.
swissinfo.ch: Come giudica i tentativi di alcuni cantoni svizzeri di vietare il velo nelle scuole dell’obbligo?
C.L.: Si deve innanzitutto fare un distinguo fra la proibizione per le allieve e per le insegnanti. Secondo me non ha senso vietarlo alle scolare. Sono troppo giovani per inserirle in uno stereotipo, in un cliché. Inoltre, le castighiamo ulteriormente. Sono probabilmente già fonte di scherno e di discriminazione fra i coetanei a causa del velo.
Secondo me, non è nemmeno corretto proibire alle maestre di portare il velo. Con la proibizione di indossarlo, le donne musulmane vengono trattate diversamente rispetto agli uomini, anche se alla base di questa decisione c’è proprio l’idea di favorire la parità fra sessi.
Infatti, se a una musulmana viene proibito di svolgere determinate attività, questa proibizione non tocca invece l’uomo musulmano, visto che non porta un capo d’abbigliamento distintivo. Così, un musulmano potrà continuare ad insegnare agli scolari svizzeri, quando invece alla donna con il velo sarà proibito.
Nata nel 1965, vive in Val Poschiavo, nel cantone dei Grigioni.
Madre di quattro figlie, conduce un’azienda agricola biologica con il marito Elmo Zanetti.
Ha seguito inizialmente una formazione di levatrice. Ha frequentato in seguito i corsi di giurisprudenza all’università di Zurigo, dove è stata assistente presso l’Istituto di diritto internazionale pubblico.
È giudice del tribunale del Distretto Bernina e co-presidente dell’associazione Biosuisse Grigioni.
Ha iniziato a scrivere la tesi di dottorato “Selbst – und Fremdbild im prä-rächtlichen Vorveständnis, analysiert am Beispiel des Kopftuchstreits” (L’immagine di sé e degli altri nella precomprensione giuridica, analizzata sull’esempio del velo) nel 1999, pubblicata nel 2009.
1996: il dipartimento della pubblica istruzione di Ginevra proibisce di portare il velo all’insegnante di scuola elementare Lucia Dahlab, decisione confermata anche dal Consiglio di Stato del canton Ginevra.
1997: il Tribunale federale svizzero (Corte suprema) conferma questa sentenza.
20 agosto 2009: la Federazione nord-occidentale di basket proibisce alla cestista di origini irachene Sura Al-Shawk di giocare con il velo islamico nelle partite del campionato svizzero.
27 gennaio 2010: il Tribunale distrettuale del canton Lucerna conferma questa decisione.
5 agosto 2010: il consiglio scolastico del canton San Gallo – la commissione che consiglia il governo riguardo la scuola dell’obbligo – si dice favorevole ad un divieto del velo islamico nelle scuole.
25 agosto 2010: la commissione federale contro il razzismo (CFR) si dice contraria al divieto di portare il velo per le allieve raccomandato dal consiglio scolastico del canton San Gallo.
14 settembre 2010: il parlamento cantonale del canton Argovia approva un’iniziativa all’indirizzo dell’assemblea federale, in cui chiede di vietare il velo integrale in tutta la Confederazione.
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