Uriel Orlow, l’artista giramondo che sussurra ai fantasmi
Uriel Orlow è stato uno dei vincitori del più prestigioso riconoscimento artistico svizzero, il Prix Meret OppenheimCollegamento esterno, di quest’anno. Le sue origini elvetiche, tuttavia, sono solo uno dei tanti elementi di un’esistenza davvero affascinante.
Capace di parlare correntemente sei lingue (e altre quattro “meno bene”) e diviso tra tre “case” a Zurigo, Londra e Lisbona, l’artista svizzero di rado si ferma da qualche parte più di una settimana, anche se cerca di spostarsi responsabilmente: di fatto, si definisce più viaggiatore che turista. Questa sua transitorietà gli ha consentito di crearsi un portfolio di opere basate su ricerche in tutti e cinque i continenti.
SWI swissinfo.ch lo ha incontrato ai primi di maggio, durante una delle sue permanenze più prolungate in Svizzera (due settimane), prima nel vicino Liechtenstein, dove stava gettando le basi per l’opera collettiva Parliament of Plants II, e poi in un caffè vicino all’Università delle Arti di Zurigo (ZHdK), dove, tra le altre cose, insegna.
“I miei nonni e nonne sono originari di Paesi diversi: Ucraina, Ungheria, Polonia e Alsazia”, spiega. “Le loro famiglie sono venute in Svizzera prima della Seconda guerra mondiale, ma alcuni miei parenti sono rimasti apolidi per parecchio tempo. Mio padre è nato in Svizzera nel 1944, ma come apolide (perché i genitori non avevano ancora ottenuto la nazionalità qui). Insomma, la classica storia di una famiglia ebrea”.
Il dilemma ebraico
Orlow trova difficile definirsi un artista svizzero. “Sono nato e cresciuto qui, ma vengo da una famiglia di migranti e la prima lingua che ho imparato a parlare e a scrivere è stato l’ebraico, non il tedesco. Più tardi ho studiato anche un po’ di arabo, in Egitto”.
All’epoca, nel 2013, stava sviluppando un progetto artistico personale tra Gerusalemme e Ramallah: “Era un progetto molto difficile, legato alla mia famiglia, alla mia storia, alla mia identità e al modo in cui si intersecano con la storia della Palestina e con gli eventi traumatici che hanno interessato entrambe le parti: l’Olocausto e la Nakba”, dice, riferendosi all’esodo forzato e alla cacciata dei e delle palestinesi durante la guerra arabo-israeliana dl 1948.
Orlow è stato accolto dai e dalle palestinesi con grande calore e ospitalità. La sua opera è stata esposta sia al Centre Culturel Suisse di Parigi, sia presso la al-Ma’mal Foundation di Gerusalemme est (la parte araba della città, occupata da Israele nel 1967). Non è mai arrivata dalla parte israeliana.
“Non espongo in Israele”, spiega l’artista. “Diverse istituzioni locali mi hanno anche invitato a farlo, ma preferisco evitare. Da artista ebreo della diaspora, mi sembra importante prendere una posizione chiara”.
Fantasmi transgenerazionali
Alla nascita di Orlow, nel 1973, a Zurigo, la famiglia si era ormai stabilita in Svizzera, ma non prima di aver dovuto superare notevoli difficoltà nell’ottenere la cittadinanza: alcuni dei suoi parenti erano pure comunisti, cosa che non veniva vista di buon occhio dalle autorità elvetiche durante la Guerra fredda.
Come in molte altre famiglie sopravvissute all’Olocausto, gli anni della guerra avevano lasciato il segno, con tutti i traumi che ne derivavano, ma in genere si evitava di parlarne: “Quei fantasmi sono stati uno degli stimoli più importanti per la mia arte”, spiega Orlow.
Dopodiché, ci illustra un concetto elaborato dagli psicologi francesi Maria TorokCollegamento esterno e Nicolas AbrahamCollegamento esterno, ossia quello dei “fantasmi transgenerazionali”, per cui una persona è tormentata da eventi che non ha mai vissuto di persona. “È qualcosa di diverso dal trauma”, spiega. “Da artista, il mio primo impulso è stato affrontare questi fantasmi transgenerazionali per provare a capirli”.
SWI swissinfo.ch: Che cosa ha scoperto in quell’occasione?
Uriel Orlow: Niente. Quella è stata la mia prima crisi artistica. Lavoro con le immagini, ma non avevo niente da mostrare.
Per pura coincidenza, però, sono finito nel villaggio ungherese da cui veniva la mia famiglia, sotto la guida del cantore della comunità, uno dei pochi sopravvissuti a essere rimasto. Il cantore mi ha portato nella ex sinagoga e si è messo a salmodiare una preghiera del mattino, che ho subito registrato.
Poi mi sono imbattuto in una piscina di Poznan, in Polonia, che i nazisti avevano ricavato da una ex sinagoga nel 1942. L’ho filmata con riprese a 360°, ma ho scelto di lasciare un vuoto nel punto in cui mi trovavo, che è diventato un punto cieco per spettatori e spettatrici.
L’opera risultante, 1942 Poznan, combina le immagini filmate nella piscina con l’audio registrato in Ungheria.
Che influenza ha avuto quell’opera sui suoi progetti successivi?
All’epoca lavoravo perlopiù a intuito, ma quell’opera mi ha aiutato a stabilire delle linee guida importanti. Da un lato, mi sono rifiutato di usare materiale storico. Non ho inserito fotografie d’archivio o simili. Il video punta a trasmettere la violenza che ancora si percepisce in quel luogo. Mira a renderci responsabili, a spingerci a rispondere in qualche modo al nostro presente. La storia di uno spazio è scolpita nella sua architettura.
Perciò quando parla della storia, quando la affronta, non si limita al passato?
A me non interessa il passato. Parlare della storia, per me, significa parlare del presente. Di come il passato continua a vivere nel presente. Significa parlare di fantasmi che sono ancora qui, che sono rimasti indietro, che vogliono qualcosa da noi, ecco, riguarda le faccende in sospeso del nostro passato. Per questo spesso e volentieri ho scelto di non usare materiali d’archivio.
Qualche anno più tardi, nel 2007, Orlow ha deciso di affinare le proprie modalità di ricerca, concentrandosi su un tema pionieristico di cui, fino ad allora, avevano parlato in pochi: i bronzi del Benin e la loro restituzione. Il gruppo di sculture, tra cui svariate placche decorate in bronzo, era stato portato via dalle truppe inglesi nel 1897 e la Nigeria lo chiedeva indietro fin dall’indipendenza del 1960. Il caso è finito al centro dell’attuale dibattito culturale sulla restituzione degli oggetti e delle opere d’arte depredati dalle potenze coloniali in Africa, Asia e America latina.
La nostra storia ha avuto inizio nel 2006, quando Orlow è stato invitato a prendere parte a una mostra sui saccheggi e sulle appropriazioni culturali. Gli organizzatori si aspettavano che parlasse delle opere depredate durante l’Olocausto. Lui, però, aveva altre idee in testa.
“Non mi andava di limitarmi alla mia storia o alla mia identità”, spiega Orlow. “I bronzi del Benin hanno rappresentato uno dei più grandi saccheggi dei tempi moderni. Tutti gli oggetti appartenenti a quella cultura sono stati rubati, portati in Europa e venduti all’asta, finendo nei musei di mezzo Occidente”.
Il British Museum ama definirsi un “museo universale” e Orlow ha pensato di sfruttare il concetto. “Anche se non ho antenati in Benin né tra i soldati inglesi che hanno partecipato alle razzie, ho voluto estendere il mio pensiero oltre la semplice dicotomia di vittime e perpetratori o perpetratrici, cercando di ampliare la nozione di responsabilità”.
Il colonialismo delle piante
Nel 2015, Orlow ha allargato la portata della sua ricerca dalla storiografia alla botanica. Durante un viaggio in Sudafrica, si è reso conto che le piante hanno giocato e ancora giocano un ruolo importante nella storia e nella politica. Tutto è partito da una pianta seminata dalla Compagnia olandese delle indie orientaliCollegamento esterno intorno al 1660.
“Hanno piantato una siepe di mandorlo del deserto lunga chilometri per proteggere il giardino della Compagnia, in cui coltivavano frutta e verdura per le navi che facevano la spola con l’India dal bestiame dei pastori locali. In pratica, piantare quella siepe è stato uno dei primi atti di violenza coloniale. La siepe è diventata complice di quel crimine ed è ancora lì”, spiega.
Anche i giardini botanici raccontano una storia di colonialismo, giusto?
I giardini botanici sono gli archivi del colonialismo. Il Kirstenbosh National Botanical Garden di Cape TownCollegamento esterno si concentra soprattutto su piante indigene, parte della ricchissima biodiversità locale. Mentre lo visitavo, però, ho notato che i cartelli con i nomi delle piante erano solo in inglese e latino. Il Sudafrica ha 11 lingue ufficiali: l’inglese ne fa parte, il latino no. E sono passati 25 anni dalla fine dell’apartheid. È da lì che ho cominciato a pensare al ruolo delle piante nella colonizzazione.
Durante le sue ricerche sul tema ha lavorato con esperti o esperte di botanica?
Botanici e botaniche non si occupano di queste cose. A loro i nomi latini piacciono, perché gli consentono di comunicare più facilmente tra loro e di pubblicare articoli sulle riviste internazionali. Perciò mi sono messo a viaggiare per il Paese, registrando i nomi delle piante da persone che li conoscevano in tante lingue diverse, fino a dare origine all’opera “What plants were called before they had a name” (Come venivano chiamate le piante prima di avere un nome), un audiodizionario della flora locale che cerca di ripristinare l’oralità repressa.
Dopo tre anni in cui avevo continuato a registrare nomi di piante senza ancora sapere perché, è stata la ricerca stessa a suggerirmi cosa farne: un pezzo acustico, dato che quei nomi esistevano solo in forma orale e non scritta.
Verso l’era della geologia
Dato che ha esteso il suo lavoro al mondo delle piante, chiedo a Orlow quale sia il prossimo universo che intende esplorare.
Il regno minerale, è la risposta. Al momento sta lavorando con piante fossili in una foresta di 280 milioni di anni. Per citare le sue parole, è come “un esperimento di viaggio nel tempo”.
In un progetto correlato, Orlow ha collaborato con scienziati e scienziate che studiano il modo in cui le piante si stanno spostando sempre più in alto sulle montagne a causa dell’innalzamento delle temperature nella regione alpina dell’Engadina, in Svizzera.
Orlow ha scelto di non ritrarre l’emergenza climatica attraverso le solite immagini di incendi, siccità e inondazioni: “Servono rappresentazioni diverse del cambiamento climatico. Personalmente ho trovato interessante lo studio della flora alpina d’alta quota perché in un certo senso è un concetto di nicchia, un’attrazione secondaria, e il mio lavoro raramente cerca la luce dei riflettori”, spiega. Per illustrare questo concetto, Orlow usa un termine tedesco, “Nebenschauplatz“, “attrazione secondaria”: “Si tratta di qualcosa che non è al centro dell’azione, ma in mezzo a tante cose diverse che si intersecano in modo interessante, basta guardarle più da vicino”.
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