Il museo del futuro sta nascendo nella più antica collezione svizzera
Il prolifico curatore e critico d'arte Marc-Olivier WahlerCollegamento esterno, a capo del Musée d'Art et Histoire di Ginevra, parla dei suoi esperimenti radicali per espandere il museo oltre le sue quattro mura - e racconta perché crede che il museo del futuro verrà dall'Africa o dall'Asia.
I musei come li conosciamo sono un’invenzione dell’Illuminismo, creati sulla scia della spinta enciclopedica del XVIII secolo per illuminare le masse. Nel corso degli ultimi 200 anni, i musei in Occidente sono diventati anche un deposito dei bottini coloniali e imperialistici di tutto il mondo. Poco è cambiato in due secoli nel modo in cui le opere d’arte e i manufatti sono esposti e classificati.
Queste concezioni superate vengono sfidate da una nuova generazione di curatori e direttori di musei. Essi non solo cercano di riscattare l’eredità coloniale attraverso il dibattito sulle restituzioni delle opere d’arte ai loro Paesi d’origine, ma mettono anche in discussione come dovrebbe funzionare il museo del XXI secolo.
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Marc-Olivier Wahler è uno di questi “curatori radicali” la cui carriera è stata ampiamente segnata dalla sperimentazione e dal tentativo di rispondere a due domande principali (o ossessioni, come dice lui): come si può abitare uno spazio d’arte e cosa rende un oggetto un’opera d’arte?
Dopo due mandati al rinomato Palais de TokyoCollegamento esterno (2006-2012), il centro parigino di più alto profilo per le arti contemporanee, e un altro periodo all’Eli and Edythe Broad Art MuseumCollegamento esterno della Michigan State University (2016-19), ha assunto la direzione del Musée d’Art et Histoire de GenèveCollegamento esterno, che ospita la più antica collezione svizzera di opere d’arte, artefatti e oggetti archeologici (dal 1776). SWI swissinfo.ch l’ha raggiunto lì per una lunga conversazione sull’arte contemporanea e sul futuro dei musei.
SWI swissinfo.ch: Dopo il Palais de Tokyo, uno spazio d’arte senza collezione, lei dirige ora un museo svizzero tradizionale con un’enorme collezione. Ciò segna una rottura nella sua carriera?
Marc-Olivier Wahler: È una continuità. Al Palais de Tokyo si lavora a livello orizzontale – direttamente con l’artista, con la creazione e l’innovazione in maniera molto dinamica – le mostre si fanno piuttosto velocemente. Ma con una collezione si può lavorare su entrambi gli assi, sia in orizzontale che in verticale. Seguendo quello che ho fatto in Michigan al MSU Board, qui continuo a concentrarmi sul significato di arte contemporanea avendo una collezione come base.
La domanda ricorrente per me è: com’è possibile definire un’istituzione al giorno d’oggi? Nel 1995 ho scritto un articolo intitolato “Come possiamo abitare un luogo d’arte? (Comment habiter un lieu d’art?). Questa domanda è alla base di tutto ciò che ho fatto da quando dirigo il Centre d’Art Neuchâtel (CAN). Si entrava in un caffè-ristorante e poi, attraverso una porta sul retro, si salivano le scale per arrivare a un centro d’arte.
Che tipo di pubblico state cercando?
La domanda “perché la gente dovrebbe venire in un posto del genere?” è molto centrale per me. La risposta è ovvia se sei interessato alle arti o se sei fortunato ad avere genitori che ti hanno portato in centri d’arte e musei, per esempio. Ma la maggior parte della gente non ha questa possibilità, quindi perché dovrebbe venire? Io mi sono fatto la stessa domanda. Non sono nato in una famiglia interessata all’arte e tutto quello che ho incrociato è stato un caso. Nella Neuchâtel della mia gioventù non c’era una scena artistica contemporanea. Ecco perché mi affido così tanto a questo tipo di serendipità per aiutare le persone ad avere la possibilità di entrare in contatto con l’arte.
Nel 2007 o 2008, [il giornale britannico] The Guardian ha recensito Parigi, con una guida e raccomandazioni, e il Palais de Tokyo è stato scelto come il posto numero uno dove andare per un appuntamento. Ho pensato, ‘Accidenti, cerco di fare mostre radicali e questa è la risposta che ottengo (ride)! Ma poi ci ho ripensato e mi sono detto che è bello andare al Palais de Tokyo e innamorarsi. La mostra resta per sempre nella memoria!
Come si fa a far innamorare la gente dell’arte oggi a Ginevra?
Se si può mostrare che tutto ciò che si ha in un museo una volta era contemporaneo, questo è un modo per collegare le persone, i periodi, e costruire qualcosa di molto più ampio dell’arte contemporanea.
Qui abbiamo, tra gli altri mestieri, l’orologeria, la numismatica, l’arte applicata. Forse non erano artisti di per sé a produrre queste opere, ma artigiani con una mente molto creativa – non faccio differenza tra un artigiano con una mente creativa e un artista.
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Questa è una domanda superata eppure molto attuale. Come si può valutare artisticamente un artefatto o un oggetto?
Molti filosofi si sono concentrati su questa domanda, specialmente dopo [Marcel] DuchampCollegamento esterno, ma nessuno ha veramente trovato una risposta.
Alla fine del mio lavoro al Palais de Tokyo, non riuscivo a trovare un’altra istituzione che potesse rappresentare una sfida altrettanto entusiasmante, così ho deciso di crearne una, la Chalet SocietyCollegamento esterno. Lo spazio era una specie di scuola, un luogo intimo dove potevo sperimentare con artisti outsider.
Lì ho esposto questa collezioneCollegamento esterno di oggetti pedagogici appartenenti a [l’artista] Jim Shaw, prodotti da ordini e sette religiose come propaganda per i loro discepoli. Ciò non può di certo essere considerato arte. Ma la selezione di Jim era composta da opere realizzate da artisti di grande talento: pittori, disegnatori, designer, fotografi. Non si poteva vederli né come opere artistiche né come oggetti ordinari. Si trattava di una via di mezzo.
Se la collezione fosse stata esposta al Palais de Tokyo, sarebbe stata immediatamente considerata arte. Una volta che entri in un museo c’è un’autorità istituzionale che dice: ‘quello che vedrai qui è arte’. Ma la Chalet Society non era riconosciuta come un’istituzione artistica, quindi si poteva ancora vedere questa tensione tra oggetto ordinario e opera d’arte.
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È per questo che cita Duchamp e la sua critica alle opere d’arte con la sua “Fontana” (il pissoir)?
Era quello che Duchamp cercava di ottenere, e nel 1917 era molto facile trasfigurare un oggetto ordinario in un’opera d’arte. Ma poi ha passato il resto della sua vita – e questo è il suo dramma – cercando di non camminare all’indetro, tornando all’oggetto ordinario, ma chiedendosi piuttosto: ‘possiamo fare un lavoro che non sia opera d’arte?’.
Ha anche passato il resto della vita dicendo: ‘Non sono un artista, sono un ingegnere’, e sperimentando molto. Penso che ci sia riuscito ma il pubblico non era pronto per questo perché le gerarchie e le categorie fino agli anni ’90 erano ancora molto forti. Solo negli ultimi 15 anni la gente ha cominciato a considerare questo tipo di “in-betweenness” (opere ibride).
Considerando l’enorme produzione artistica degli ultimi decenni, l’importanza del curatore è aumentata perché è l’unico in grado di dare un senso a tutta questa produzione?
[Joseph] Beuys diceva che tutti sono artisti, ma ora chiunque può essere anche un curatore. Fare la lista della spesa è un lavoro da curatore, per esempio. E tutti sono anche collezionisti. Quindi, cosa significa tutto questo?
C’è arte buona e arte cattiva. Se è buona o no dipende solo dal gusto personale. Questo è molto disorientante per le persone, perché non possiamo fare affidamento su un’autorità superiore.
Il gusto di una persona si basa sulla sua storia e sulle sue convinzioni. Più un oggetto viene interpretato, più sarà coerente, denso, efficiente. Con una, due interpretazioni, hai una semplice sedia; con tre o quattro, una sedia di design; con cinque, sei, sette, forse diventa un’opera d’arte; con 15, 20, diventa un capolavoro.
Quello che voglio dire è che anche un’opera d’arte ben fatta, per esempio un dipinto accademico del XIX secolo, che ha solo una o forse due interpretazioni, potrebbe non essere buona. Ecco perché Duchamp è probabilmente uno dei più grandi artisti: ogni generazione lo riscopre con nuove interpretazioni.
Quindi come gestisce queste convinzioni quando lavora in un’istituzione e deve presentare l’opera e comunicarla a un pubblico?
È tua responsabilità presentarla in modo tale da mantenere intatta l’essenza dell’oggetto, in modo neutrale, ma anche creando le condizioni affinché il visitatore sia libero di reinterpretarla senza sentirsi intimidito dall’autorità dell’istituzione.
È una linea guida per il museo del futuro?
Non solo una linea guida. Negli ultimi 10 o 15 anni, è diventato ovvio che il museo come lo conosciamo sta per cambiare. Ci sono centinaia di articoli e libri sul museo del futuro, tutti si fanno domande, ma nessuno conosce la risposta.
Nemmeno io ho una risposta, ma ora ho dieci anni per pensarci e sperimentare.
Che cosa può dire finora?
Per me una cosa è certa: il museo deve essere anche un progetto urbano. Quasi tutti gli articoli e le analisi che vedo sul museo del futuro guardano sempre a ciò che accade tra le quattro mura del museo.
Ma per me il museo deve espandersi come un progetto urbano dove i visitatori non sanno davvero se sono già nel museo o ancora per strada. Immaginate di fare skateboard e di trovarvi improvvisamente all’interno di una mostra.
Quindi intende abbattere i muri e irrompere sulla strada?
Sì, voglio rendere il museo parte della pianificazione urbana. Il miglior esempio che posso trovare, legato al nostro contesto attuale, è il Beaubourg, così com’era quando aprì le porte al pubblico, nel 1977Collegamento esterno. Lì, lo spazio doveva fungere da passaggio tra due strade. Il progetto è durato tre anni mentre il curatore svedese Pontus HulténCollegamento esterno era il direttore, ma poi l’amministrazione lo ha distrutto del tutto.
Rimane la questione delle origini della collezione e l’attuale dibattito sulla restituzione dei manufatti saccheggiati durante il periodo coloniale. Il concetto stesso di museo è un’idea occidentale, come si rapporta perciò questa questione con il futuro dei musei?
Prendiamo la questione della cancel culture. Se dovessi esporre una statua di qualcuno coinvolto nella tratta degli schiavi, per esempio, la terrei e fornirei le giuste informazioni, perché fa parte della nostra cultura. Con i musei è lo stesso. Il museo è un’invenzione occidentale, coloniale, e non dobbiamo edulcorarla, dobbiamo abbracciarla. Ma con tutti gli strumenti critici per far capire alla gente il nostro passato e perché questo tipo di strumenti sono necessari.
Pensando al museo di domani, credo che la risposta verrà dall’Africa o da alcune parti dell’Asia. Non dal Nord America o dall’Europa. Lì i vincoli per mostrare alcune opere sono troppo numerosi e persino con la mentalità occidentale è necessario trovare un modo creativo per mostrarle.
Traduzione dall’inglese: Sara Ibrahim
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