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Donne svizzere e lavoro forzato, una storia dimenticata

donne che stirano
Lavoro e vita quotidiana nell'istituto femminile di Ulmenhof, nel villaggio di Ottenbach, nel cantone di Zurigo, dove venivano ospitate anche "ragazze difficili da educare", agosto 1970. Keystone

Fino agli anni Settanta, in Svizzera esisteva ancora il lavoro forzato come misura coercitiva a scopo assistenziale. Una pratica di cui approfittarono anche le aziende industriali elvetiche.

Alcuni mesi prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, l’Assemblea federale decise di approvare una convenzione, tutt’ora in vigore, che vietava il lavoro forzato in Svizzera.

Fu per motivi morali che le due Camere del Parlamento decisero di aderirvi. Il Consiglio federale spiegò allora che il problema non riguardava la Confederazione, ma solo “il lavoro degli indigeni nei territori coloniali”.

La valutazione del Governo non poteva però essere più errata. Infatti, la convenzione interessava la Svizzera visto che anche da noi si conosceva il lavoro forzato. Solo decenni dopo ci si rese conto che era così. E ciò ebbe gravi conseguenze per migliaia di persone vittime dell’internamento amministrativo.

“L’educazione” forzata di centinaia di donne

Tra queste c’era Liselotte S. Come altre centinaia di adolescenti venne destinata al lavoro in una fabbrica a scopo “educativo”. Dal 1960 al 1962 venne affidata al collegio per ragazze Sonnenberg a Walzenhausen, nel Canton Appenzello Esterno. Le giovani donne venivano impiegate nelle aziende industriali della regione senza ricevere un salario che veniva versato alla direzione dell’internato. Il collegio di Sonnenberg, iscritto nel registro del commercio, riceveva addirittura un compenso da parte di due industriali visto che procacciava loro forza lavoro.

Le regole dell’istituto a Walzenhausen erano molto severe. Chi si ribellava rischiava l’arresto. Si dava la caccia a chi tentava la fuga. Chi si rifiutava di ritornare in collegio, doveva a volte passare un po’ di tempo in prigione. Un’esperienza che Liselotte S. ha vissuto sulla sua pelle. “È un’enorme ingiustizia di cui nessuno ha mai dovuto rispondere”, dice la donna, che oggi ha 82 anni.

donne lavoro forzato
“Zitte! Mantenere l’ordine + non battere la fiacca”. Erano le regole scritte su uno striscione per mantenere alta la motivazione durante il lavoro forzato nell’officina di Lärchenheim (Lutzenberg AR). RBA/Staatsarchiv Aargau/Reto Hügin

Era il 22 marzo 1960 quando Liselotte S. entrò per la prima volta nelle stanze dell’internato. I ruggenti anni Sessanta erano appena iniziati. Quell’estate, le note del tormentone «Itsy Bitsy Teenie Weenie» rivoluzionarono la moda delle bagnanti che abbandonavo i costumi castigati per mettersi succinti bikini.

Liselotte aveva 19 anni e, accompagnata da un’impiegata dell’assistenza sociale, salì su una carrozza della ferrovia a cremagliera a Rheineck, cittadina sangallese al confine con l’Austria, e scese dal treno ad Appenzello Esterno. “Non sapevo dove mi stavano portando”, racconta. “Mi dissero soltanto che sarei finita in un luogo dove averi potuto lavorare”.

Nell’istituto privato, l’educazione delle giovani donne consisteva in un monotono lavoro in fabbrica. Il salario veniva versato al collegio e serviva a coprire le spese di alloggio, vitto e altre uscite personali, quali i premi della cassa malattia.

Oggi Liselotte S. è molto più critica che in passato. “Il direttore dell’istituto ci sfruttava. Siamo state derubate della nostra libertà. Lo trovo terribile. Ma allora era normale per noi ragazze”.

Internamento a proprie spese

Lo sfruttamento seguiva una chiara strategia: lo Stato usava il salario delle giovani donne per finanziare il loro internamento. Le autorità bernesi avevano scelto un istituto per Liselotte S. che non costasse nulla al Cantone.

Consultando il certificato AVS di Liselotte S. è possibile ricostruire quanti franchi e centesimi risparmiò lo Stato con il suo internamento amministrativo: Liselotte S. guadagnò 8’475 franchi in 33 mesi. Oggigiorno sarebbero circa 34’000 franchi. A lei, dopo tutte le detrazioni, spettò solo un misero 1%. Quando a 21 anni poté finalmente lasciare l’istituto, Liselotte S. non aveva né una formazione né i soldi per rifarsi una vita.

Altri sviluppi

Il Consiglio di Stato del Canton Berna sapeva ciò che faceva. Aveva infatti comunicato a Liselotte S. che dopo la scuola dell’obbligo aveva la possibilità di frequentare un istituto che le «permetteva di lavorare in varie aziende industriali e di guadagnarsi di che vivere». È quanto si può leggere nel verbale del governo bernese del 29 aprile 1960 alla voce «Trasferimento amministrativo di una minore in un riformatorio» (Administrative Versetzung einer Minderjährigen in eine Erziehungsanstalt). All’epoca solo a vent’anni si era maggiorenni.

A undici anni, Liselotte S. venne affidata a una famiglia perché era una figlia «illegittima». Sua madre vi si oppose con tutte le sue forze, ma senza successo. A 19 anni andò al cinema con un suo coetaneo. Quando l’assistenza sociale lo venne a sapere, fece richiesta al Governo che venisse mandata in un internato “onde evitare una gravidanza extraconiugale, almeno nel periodo dell’internamento amministrativo”.

stanza istituto femminile
Stanza di un istituto femminile arredata con mobili semplici, dove erano costrette a vivere anche “ragazze difficili da educare”. Keystone

Il Consiglio di Stato approvò la domanda e ordinò la misura coercitiva. La motivazione: Liselotte S. “era seriamente minacciata nel suo sviluppo morale”.

Per le autorità era “educazione al lavoro”. Walzenhausen non era un’eccezione in Svizzera. C’erano altri istituti che funzionavano in maniera analoga, ad esempio a Lutzenberg, villaggio vicino al Sonneberg, o nei cantoni Turgovia, Glarona e Soletta. Questi internati prendevano in affido le giovani che l’assistenza sociale assegnava loro.

Il lavoro forzato era quindi diffuso in Svizzera, anche se era proibito dal 1941 dato che la Confederazione aveva approvato una convenzione internazionale che lo vietava. Nell’articolo 2 dell’accordo si legge che l’espressione “lavoro forzato od obbligatorio designerà qualsiasi lavoro o servizio che si esige da un individuo sotto la minaccia di una pena”. Senza una decisione giudiziaria, lo Stato non può imporre un lavoro a una persona.

Ma è ciò che spesso avveniva con “l’internamento”. Le giovani donne non avevano commesso alcun crimine e non erano state condannate da un tribunale. Spesso finivano in questi collegi perché da bambine erano state assegnate ad una famiglia affidataria. L’unica loro colpa: erano povere, illegittime o i genitori si erano separati.

Da un punto di vista giuridico, le ragazze vittime di “internamento amministrativo” erano spesso messe peggio dei giovani ladruncoli o delinquenti. Dal 1942, il Codice penale svizzero prevedeva che questi dovevano avere la possibilità di imparare un mestiere. Le vittime delle misure coercitive a scopo assistenziale venivano invece obbligate a lavorare per un’azienda agricola o una fabbrica. Molte giovani non hanno potuto seguire una formazione professionale e per questo motivo, dopo il loro periodo di “educazione al lavoro”, le loro chance di fare carriera erano davvero poche.

Nel Dopoguerra, durante il boom economico, gli istituti come il Sonnenberg divennero sempre più interessanti per l’industria elvetica. La mancanza di manodopera e l’alta congiuntura favorirono lo sviluppo di un sistema basato sul lavoro forzato delle giovani donne. In alcune regioni si instaurò una collaborazione molto stretta tra le autorità sociali e le imprese industriali.

Lenta fine

Negli ultimi anni del Dopoguerra, per le autorità politiche divenne sempre più difficile giustificare il lavoro forzato, soprattutto nei confronti dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), con sede a Ginevra. Quest’ultima ha il compito di controllare l’applicazione della Convenzione da parte degli Stati firmatari. Già nel 1949, la Svizzera dovette rispondere a domande scomode da parte dell’OIL. Dopo aver accettato per anni le risposte evasive e le reinterpretazioni della definizione del lavoro forzato fornitele dalle autorità elvetiche, nel 1967 ricordò a Berna che la Svizzera violava la Convenzione Nr. 29 concernente la soppressione del lavoro forzato. Infatti, solo un giudice poteva imporre il lavoro forzato.

Nel 1969, la Confederazione poté aderire alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma solo con riserve perché, stando al portavoce di una Commissione del Consiglio nazionale, “alcune leggi cantonali sull’assistenza istituzionale non conoscono alcun controllo giudiziario sull’assistenza amministrativa”. Le riserve erano dovute anche alla “mancanza di uguaglianza politica per le donne”.

Nel 1969, nell’ambito di un dibattito parlamentare, il presidente della Confederazione Ludwig von Moos ammise che “le misure coercitive a scopo assistenziale potevano portare al lavoro forzato”. Il problema non era solo la mancanza di una decisione del tribunale, ma anche il fatto che “l’internamento poteva violare la Convenzione internazionale sul lavoro forzato e obbligatorio”. Il responsabile del Dipartimento di giustizia e polizia ammise quindi ufficialmente che il lavoro forzato esisteva in Svizzera. È stato l’inizio della fine delle misure coercitive a scopo assistenziale, misure vietate a partire dal 1981.

Nel 2023, Yves Demuths ha dato alle stampe il libro «Schweizer Zwangsarbeiterinnen. Eine unerzählte Geschichte der Nachkriegszeit» (Le donne svizzere costrette ai lavori forzati. Una storia non raccontata del dopoguerra)

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