La fotografia scultorea di Hannah Villiger si svela a Roma
L'Istituto Svizzero di Roma ospita una mostra dedicata all'artista elvetica Hannah Villiger, che nella capitale italiana trascorse un periodo della sua vita. L'esposizione offre uno spaccato del percorso artistico di Villiger la quale, pur utilizzando la fotografia, si è sempre considerata "scultrice".
La produzione di Hannah Villiger (1951-97), in buona parte ancora da riscoprire, è protagonista della mostra Works/SculpturalCollegamento esterno, prima grande personale dell’artista in Italia, visitabile fino al 27 giugno 2021 presso gli spazi dell’Istituto Svizzero di Roma. Curata da Gioia Dal Molin, la mostra sarà accompagnata da un volume edito da Mousse Publishing in uscita nell’estate del 2021, con i contributi della curatrice, di Elisabeth Bronfen, Quinn Latimer e Thomas Schmutz.
L’esposizione monografica si pone l’obiettivo di promuovere la conoscenza dell’artista fuori dai confini elvetici, offrendo una veduta retrospettiva del suo percorso artistico con un focus sull’influenza del periodo di residenza svolto presso l’istituzione di Villa Maraini, dove è stata borsista dal 1974 al 1976.
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In seguito agli anni della formazione in Svizzera, svoltasi presso la Scuola d’Arti Applicate di Lucerna, Villiger trascorre infatti un periodo nella città di Roma, protraendo la sua permanenza fino al 1977. Una fase che si rivela fondamentale nella definizione del suo immaginario, poiché grazie a questo soggiorno ha potuto avvicinarsi alle esperienze che caratterizzavano la scena culturale romana, prima tra tutte quella dell’Arte Povera.
Parallelamente, l’artista partecipa già ad importanti manifestazioni artistiche europee, come la Biennale di Parigi del 1975, dove ha rappresentato la Svizzera assieme a John Armleder e Martin Disler.
Riconquistare il corpo
La sua palette mediale comincia a definirsi già in quegli anni, in cui l’artista dimostra un’attenzione verso linguaggi quali il disegno e la performance. L’interesse già manifesto verso la pratica fotografica si assesta in maniera definitiva negli anni ’80, quando, complici anche le sue problematiche di salute, Villiger scopre nell’immediatezza della camera polaroid la dimensione e misura ultima della sua pratica estetica. Tale linguaggio le permette infatti non solo di evitare il gravoso viaggio verso il laboratorio per lo sviluppo dei negativi, ma soprattutto di acquisire una velocità di visualizzazione, e dunque di composizione, adeguata a restituire la mutevolezza e fragilità degli elementi che componevano il suo vissuto quotidiano.
Il suo corpo, in questa cornice, diviene l’elemento d’indagine privilegiato, attorno al quale l’artista ha sviluppato una prassi rappresentativa quasi rituale, scandita da sessioni di lavoro svolte all’interno di un’“arena” – un lenzuolo bianco steso a terra – in cui le forme del corpo sono oggetto di un processo di metamorfosi. Queste sperimentazioni allineano la sua ricerca a un filone fondamentale della pratica artistica del momento, in cui il genere dell’autoritratto, appannaggio storicamente maschile, viene espugnato e riconquistato da fondamentali esperienze femminili, come ad esempio quelle di Eleanor Antin, Ana Mendieta e Cindy Sherman.
Tra gli anni ‘80 e ’90, Hannah Villiger seguita a esporre il proprio lavoro in importanti istituzioni europee come la Kunsthalle Basel (nel 1981 e nel 1985), il Centre Culturel Suisse di Parigi (1986), il Museum für Gegenwartskunst a Basilea (1988/1989) e il Kunstverein di Francoforte (1991). Da un punto di vista del linguaggio artistico, le fotografie virano verso esiti estremamente frammentati, quasi astratti, radicali nella scelta di dissimulare la riconoscibilità del corpo, ormai affermatosi come principale soggetto del suo immaginario.
Hannah Villiger trascorre i suoi ultimi anni a Parigi, città in cui si è trasferita nel 1986. Segna questo periodo la sua partecipazione alla 22° Biennale di San Paolo (1994), dove ha rappresentato la Svizzera assieme all’artista Pipilotti Rist (Grabs, 1962). L’evento fu uno dei più partecipati nella storia dell’istituzione brasiliana, con un’adesione di ben 70 paesi e un record incredibile di visitatori. Con la direzione curatoriale di Nelson Aguilar, l’evento ha riunito artisti storicizzati – tra tutti si ricorda Piet Mondrian – e protagonisti della storia contemporanea, tra cui anche Lucio Fontana, Robert Rauschenberg, Gerhard Richter e Rosemarie Trockel.
Fino alla fine, la produzione artistica di Hannah Villiger non si ferma. Nonostante le precarie condizioni di salute e i ricoveri in ospedale, nella primavera del 1997 crea ancora i suoi “blocchi” di polaroid. Muore per insufficienza cardiaca nell’agosto dello stesso anno, pochi giorni dopo il suo ritorno in Svizzera, nel canton Argovia.
La mostra presso l’Istituto Svizzero di Roma offre uno spaccato trasversale sulla pratica dell’artista, alternando opere fotografiche di grandi dimensioni a bacheche di appunti, documenti e disegni, al punto che il dispositivo estetico della mostra arriva a connotarsi come un monumentale diario in cui la gerarchia tra opera e appunto sfuma in favore di una narrazione totale.
La parentesi temporale dei lavori esposti si apre con le opere degli anni ’70 per chiudersi con due lavori fotografici degli ultimi anni (1996; 1995/97), collocati nella prima sala quasi a sancire la struttura circolare e fluida dell’allestimento. Si procede nella seconda e terza stanza attraverso una costellazione di immagini e schizzi che restituiscono le visioni e gli innamoramenti dell’artista, documentando il potenziale trasformativo delle sue ossessioni e la loro progressiva sintesi verso sperimentazioni più mature.
Non opere fotografiche, ma scultoree
La rappresentazione del corpo mantiene una centralità indiscussa nel percorso di mostra, grazie a una in successione di opere che ne raccontano la graduale frammentazione attraverso gli ambienti eclettici di Villa Maraini. La presenza di opere discoste dalla tematica del corpo – Von der Terrasse, der Baum (1984/85) nella prima sala della mostra –, così come la selezione di polaroid “scartate” collocate nell’ultimo ambiente, in cui appaiono vedute di alberi, permette inoltre una campionatura dell’effettivo perimetro di indagine dell’artista, evidenziando le traiettorie di uno sguardo che scruta minuziosamente ciò che è immediatamente adiacente, raggiungibile nel raggio d’apertura delle sue stesse braccia o entro l’orizzonte più prossimo.
L’indagine sulla plasticità dell’immagine fotografica, intesa come successione di volumi che trascendono la bidimensionalità dello scatto, è una nota fondamentale nella ricerca dell’artista, tanto che essa stessa arriverà a definire i suoi lavori come propriamente scultorei, suggerendo tale proprietà anche attraverso la scelta dei titoli (Skulptural, Bildhauerei – Scultoreo, Scultura). Architetture tortili nello spazio, paesaggi lunari, colline e depressioni appaiono nelle sue immagini creando un corto circuito nella funzione anatomica primigenia di ciò che è rappresentato.
E proprio queste rotture e dissimulazioni si fanno interpreti della volontà di riappropriazione del corpo, presa di posizione di uno sguardo femminile storicamente situato e consapevole. Hannah Villiger, con le sue immagini, assesta un colpo al tentativo storicizzato di prevaricazione di quello sguardo maschile che la vorrebbe oggetto e mai soggetto, scrutata e mai scrutante. “Attraverso la ripetizione costante” dice l’artista “il mio corpo diventa ‘un corpo’”. Così, questa frammentazione ossessiva diviene estensione della volontà di creare un corpo universale, irriconoscibile e quindi inespugnabile.
E questo sguardo che segmenta, distorce e avvicina può dirsi il vero soggetto della mostra all’Istituto Svizzero, non solo poiché questo è ricostruito nella cronologia della sua evoluzione, ma poiché di esso sono tracciate le infinitesimali distanze percorse, mostrando come l’artista, spostandosi appena di pochi passi, abbia ricercato incessantemente, e ritrovato in sé stessa, la proporzione e sostanza del mondo.
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