Quando i negazionisti della Shoah cercavano visibilità
A metà degli anni Novanta in Svizzera si discute di una legge contro il razzismo. Nel dibattito cercano di inserirsi anche ambienti che negano i crimini nazisti. Con le loro prese di posizione e la diffusione di teorie del complotto, le persone negazioniste finiscono però per sabotare la propria causa.
“La Svizzera è stata probabilmente l’unico Paese in cui chi negava l’Olocausto ha cercano di influire su un ampio dibattito politico”, dice Peter Niggli. Trent’anni fa in Svizzera non esistevano leggi che si opponessero alla diffusione di idee razziste o antisemite. La Svizzera era uno degli ultimi Paesi al mondo a non aver ratificato la convenzione delle Nazioni Unite contro il razzismo.
Governo e Parlamento avevano cercato di porre un rimedio alla situazione con una legge contro il razzismo. Ma contro la proposta era stato lanciato un referendum, sostenuto da ambienti di destra. La Svizzera si apprestava ad affrontare una difficile votazione. All’epoca Peter Niggli si occupava di ricerca e comunicazione nell’ambito della campagna a favore della legge.
Fino al 1995 non era possibile intervenire contro dichiarazioni razziste se l’attacco non si rivolgeva anche a singole persone. Solo in tal caso era possibile sporgere querela per “offesa”, “diffamazione” o “calunnia”.
Una piattaforma per gli individui negazionisti
Quando la losannese Mariette Paschoud lodava nella sua rivista di estrema destra le ricerche “accurate” di una persona negazionista non doveva perciò temere conseguenze legali. Al contrario: la stessa Paschoud querelò per calunnia un giornalista che nel 1992 l’aveva definita “la bruna Mariette”.
“La Svizzera è stata probabilmente l’unico Paese in cui chi negava l’Olocausto ha cercano di influire su un ampio dibattito politico.”
Peter Niggli, esperto della legge svizzera contro il razzismo
Secondo il libro Rechte Seilschaften, un’opera fondamentale sull’estrema destra elvetica, gli ambienti negazionisti in Svizzera, che mettevano pubblicamente in discussione la realtà della Shoah o ne sminuivano la portata, erano formati da una dozzina di persone, politicamente “del tutto isolate”.
Rechte Seilschaften fornisce un quadro dettagliato della destra estrema e radicale in Svizzera negli anni Novanta. Peter Niggli ha scritto il libro insieme al giornalista investigativo Jürg Frischknecht, nel frattempo scomparso. Niggli ricorda: “I negazionisti dell’Olocausto erano già ostracizzati, ma mantenevano spazi di azione”. Prima del dibattito sulla legge contro il razzismo, che considerava reato la negazione della Shoah, Niggli dice di non aveva quasi percepito la loro presenza.
“In precedenza, le persone negazioniste in Svizzera erano importanti solo per l’estero; la Svizzera era una piattaforma per chi negava l’Olocausto”. Per l’Europa la scena elvetica era una specie di “equivalente delle società di comodo”. Qui c’erano case editrici e vendite di libri per corrispondenza, qui i nazisti offrivano i loro “servizi dietro le quinte” per i camerati nei Paesi vicini, dove le loro attività erano punibili per legge.
“Da noi non ci sono libri proibiti”
Uno di loro era Gaston-Armand Amaudruz. Nella sua rivista Courrier du Continent diffondeva fin dal 1946 visioni distorte della storia ispirate dall’ideologia del Terzo Reich. Più tardi il foglio ospitò i contributi di pubblicisti nazisti di molti Paesi, dalla Germania al Canada. Per lunghi anni curò le sue reti di relazioni con ambienti di estrema destra all’estero. I libri di Amudruz sono diventati parte del “corpus della letteratura razzista e antisemita del dopoguerra”, scrive lo storico Damir Skanderovic.
Una delle attività principali di Amaudruz era però la spedizione in tutta Europa di libri di altri autori. “Da noi non ci sono libri proibiti”, diceva, promuovendo la Svizzera come piattaforma per la pubblicistica di stampo nazista. Tra “i negazionisti svizzeri, particolarmente attivi”, il pubblicista godeva di “grande ammirazione”, afferma Skanderovic. Ma Amaudruz si rivolse ai suoi camerati svizzeri solo quando negli anni Ottanta la rivendicazione di una legge che punisse il razzismo e l’antisemitismo trovò ascolto in Parlamento.
“I negazionisti dell’Olocausto svizzeri erano allora molto ben organizzati, più di quanto lo siano mai stati.”
Hans Stutz, giornalista e politico ecologista
Il 22 giugno 1989 la consigliera nazionale Verena Grendelmeier chiese un rapporto sulle attività di estrema destra in Svizzera. Il rapporto avrebbe dovuto anche chiarire se fosse necessario adottare nuove leggi “contro l’istigazione al razzismo, la formazione di associazioni razziste, la falsificazione della storia in senso neonazista (‘la menzogna di Auschwitz’)”. Dieci giorni dopo a Coira quattro rifugiati tamil morirono in un incendio le cui cause sono rimaste ignote.
Tra settembre e ottobre il Consiglio federale (Governo) e il Parlamento si espressero a favore della proposta di Grendelmeier. Ciononostante, ancora in novembre il ministro degli esteri Flavio Cotti nel corso di un dibattito televisivo si preoccupò di sminuire il problema: “La prego, non parli di xenofobia nel nostro paese”, disse, assicurando che nonostante alcune “apparizioni”, la “popolazione in generale” non era razzista.
Coalizione di estrema destra
Il giornalista e politico ecologista Hans Stutz osserva gli ambienti di estrema destra fin dalla fine degli anni Ottanta. A suo avviso, polizia e magistratura all’epoca non solo non avevano gli strumenti giuridici per intervenire, ma “erano poco propense a considerare possibili motivi di estrema destra o razzisti”.
“Mentre la legge contro il razzismo negli anni Ottanta interessava solo marginalmente i partiti politici, per gli ambienti neofascisti era una questione centrale”, si legge in Rechte Seilschaften. Alcuni cercarono agganci nel mondo politico. Amaudruz era consapevole del suo influsso limitato: lui e i suoi “amici” – così chiamava i suoi sodali negazionisti – riuscirono a raccogliere solo 5’000 firme per il referendum contro la legge, vale a dire un decimo di quelle necessarie.
Amaudruz ammirava pubblicamente il leader dell’Unione democratica di centro (UDC, destra sovranista) Christoph Blocher ed era membro, al pari di Mariette Paschoud, dell’Azione per una Svizzera neutrale e indipendente (ASNI), di cui Blocher all’epoca era presidente. Partecipò anche alle sedute del comitato contro la legge sul razzismo guidato dall’imprenditore e membro dell’UDC Emil Rahm. L’UDC era divisa: il partito nazionale era a favore della legge, alcune sezioni cantonali erano contrarie.
“I negazionisti dell’Olocausto svizzeri erano allora molto ben organizzati, più di quanto lo siano mai stati”, ricorda Stutz. “Si unirono per combattere la norma penale sul razzismo.” Nella fase calda della campagna per la votazione si mantennero però in secondo piano. “Lo fecero in seguito alle pressioni del comitato della destra borghese”, afferma Stutz.
Le persone negazioniste creavano imbarazzo agli avversari borghesi della legge contro il razzismo. I politici della destra avrebbero voluto mettere al centro della campagna le barzellette razziste e le battute da osteria. Qualunque persona avrebbe potuto essere criminalizzata a causa della norma penale sul razzismo – questo era il loro messaggio.
Ma i negazionisti non smisero di inviare le loro pubblicazioni a migliaia di indirizzi. Max Wahl di Winterthur, per esempio, continuò a riempire le colonne della sua rivista Eidgenoss con teorie del complotto antisemite. Parlava di “piani per il dominio mondiale” e riteneva anche Christoph Blocher un “venduto”. La legge contro il razzismo era per lui “la più svergognata richiesta di agitatori ebrei e dei loro aiutanti in Svizzera”.
Anche il “Gruppo di lavoro per la de-tabuizzazione della storia contemporanea”, nato dall’alleanza fra quattro negazionisti all’inizio degli anni Novanta, inviò opuscoli non richiesti a 6’000 indirizzi, tra cui varie università. I membri di questo gruppo sognavano di mettere in dubbio la realtà storica nel corso di dibattiti pubblici.
Se non all’università, almeno davanti ai tribunali: il membro del gruppo di lavoro Jürgen Graf scrisse poco prima della votazione che alcuni negazionisti auspicavano l’approvazione della “legge museruola”. La loro speranza era di approfittare di processi pubblici per far conoscere la loro visione del mondo e le loro presunte prove. In soli due anni, tra 1993 e 1994, Graf pubblicò tre libri, in cui tra le altre cose negava l’esistenza delle camere a gas ad Auschwitz.
Nell’autunno del 1994 la legge contro il razzismo fu approvata con il 54% dei voti, il 1° gennaio 1995 entrò in vigore. Un mese dopo il Tribunale federale respinse la causa per calunnia di Mariette Paschoud. Nell’atto di denuncia, Paschoud chiedeva anche “una prova per l’esistenza delle camere a gas”. Il Tribunale federale scrisse nella sua decisione che di fronte alle “numerose prove a disposizione”, la richiesta di “una prova” era “assurda”. Così le speranze della negazionista di ottenere una tribuna pubblica svanirono.
La nuova legge contro il razzismo dimostrò essere efficace nel contrastare la diffusione di idee negazioniste. Max Wahl chiuse la sua rivista Eidgenoss il 1° gennaio 1995. G. A. Amaudruz smise di pubblicare la lista dei libri disponibili nel suo Courrier du Continent. Più tardi dovette scontare varie condanne per le sue affermazioni discriminatorie. Jürgen Graf evitò la prigione fuggendo a Mosca, dove rimase finché i reati caddero in prescrizione. Oggi fa vita ritirata a Basilea.
Da allora i negazionisti della Shoah non hanno più tentato di ritagliarsi uno spazio nel dibattito pubblico come avevano fatto negli anni Novanta. È probabile che le loro dichiarazioni abbiano contribuito a spingere alcune persone indecise ad approvare la legge che ha reso la loro attività perseguibile penalmente.
Traduzione dal tedesco di Andrea Tognina
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