Voci proibite sfidano la censura
Attraverso il loro blog, tre donne si battono ogni giorno per difendere la libertà d'espressione e denunciare la repressione in atto nei loro rispettivi paesi: Cuba, Iran e Cina. Il documentario di Barbara Miller "Forbidden Voices", in corsa per il premio del cinema svizzero, racconta la loro storia.
«Quando il regime iraniano ha censurato il mio blog, era come se qualcuno mi tappasse la bocca, ordinandomi di stare zitta», racconta Farnaz Seif, giornalista iraniana di 29 anni, nel documentario “Forbidden Voices” (Voci Proibite). «Ho aperto il mio primo blog nel 2003; a quel tempo erano ancora poche le attiviste che utilizzavano questo strumento in Iran. Parla delle discriminazioni di cui sono oggetto le donne nel mio paese e di altri tabù, da un punto di vista intimista. Inizialmente firmavo con il mio vero nome. Lo consideravo un primo passo verso la democrazia. Ma poi sono cominciate le intimidazioni…».
Nel 2007, dopo una lunga serie di minacce e incarcerazioni, Farnaz Seif sceglie la via dell’esilio. Si rifugia in Europa, dove viene assunta dal sito d’informazione tedesco Deutsche Welle come esperta del cyberspazio iraniano. Parallelamente continua però la sua attività di blogger: racconta la vita di esule, «il peso che ti senti dentro», le violazioni di cui sono vittime i suoi amici in Iran, il diritto alla libertà di espressione e il sogno di una società democratica e libera.
Yoani Sánchez
Ho visto le immagini del crollo del muro di Berlino 11 anni dopo gli eventi dell’ottobre 1989; le notizie ci arrivavano quando già erano storia
Lo fa con uno pseudonimo, per proteggere la sua famiglia. E con la tenacità di una combattente, pur sapendo che il suo blog – come molti altri – difficilmente passerà le maglie della censura iraniana. «Basti pensare che le autorità hanno inserito la parola “donna” nella lista dei termini proibiti» e quindi tutti i siti che ne parlano vengono passati al setaccio o oscurati., spiega Farnaz Seif.
La battaglia contro la censura attraverso internet è al centro del documentario di Barbara Miller. Primo lungometraggio, è il frutto di cinque anni di lavoro e di una stretta collaborazione con l’organizzazione non governativa Reporter senza frontiere. «La mia prima preoccupazione, quando ho deciso di fare questo film, è stata quella di non mettere in pericolo l’incolumità delle protagoniste e delle loro famiglie», afferma Barbara Miller.
Oltre a Farnaz Seif, la regista svizzera ha raccolto anche le testimonianze di altre due blogger di fama internazionale: l’attivista cinese Zeng Jinyan, che assieme al marito Hu Jia è stata più volte costretta agli arresti domiciliari perché considerata un personaggio scomodo, e la cubana Yoani Sánchez, il cui blog è tradotto in venti lingue, ma oscurato sull’isola castrista.
Zeng Jinyan
Mi hanno proibito di comunicare con il mondo esterno; hanno perquisito la nostra casa e confiscato computer e telefoni
La censura fisica
Barbara Miller ha sperimentato in prima persona le limitazioni alla libertà di espressione. Ha viaggiato camuffata da turista, con una piccola macchina digitale per non dare nell’occhio. In Iran ha preferito non andare. Il viaggio lo ha dunque intrapreso il suo cameraman che, malgrado diversi controlli di polizia e un fermo, è riuscito a tornare con qualche immagine salvata su un disco. «A Cuba, dove abbiamo incontrato Yoani Sánchez, c’era spesso un’autocivetta posteggiata davanti a casa o un agente nascosto dietro a un albero, mentre in Cina, la polizia era appostata giorno e notte di fronte all’appartamento di Zeng Jinyan», dichiara Barbara Miller.
Estremamente politici, i blog di queste tre donne raccontano storie di vita quotidiana e trasformano esperienze intime – come quella di Zeng Jinyan costretta a crescere la figlia piccola agli arresti domiciliari – in potenti strumenti di denuncia. Ma anche di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e dei leader politici di tutto il mondo. «Prendiamo il caso di Zeng Jinyan. Oggi sono in pochi i governi che hanno il coraggio di affrontare apertamente il tema dei diritti umani in Cina. Il suo auspicio è che continuando a denunciare le violazioni commesse dal regime, la comunità internazionale aprirà finalmente gli occhi», commenta ancora Barbara Miller.
Farnaz Seif
Per via dei nostri articoli critici e dei contatti con paesi stranieri siamo state accusate di costituire una minaccia alla sicurezza dello Stato
Aggirare il sistema
Nel mese di gennaio, quando “Forbidden Voices” è stato presentato alle Giornate cinematografiche di Soletta, Yoani Sánchez avrebbe dovuto essere lì, al fianco di Barbara Miller. Le autorità cubane, però, le avevano vietato per l’ennesima volta l’autorizzazione di lasciare il paese, malgrado una nuova legge migratoria più permissiva. Il via libera lo riceverà soltanto qualche settimana più tardi e la sua foto con in mano il passaporto sarà ripresa dalla stampa internazionale come simbolo di un’apertura del regime castrista.
Ma non è tutto. All’estero Yoani Sánchez ha smesso di essere una “blogger cieca” e ha potuto vedere coi suoi stessi occhi il suo blog. A Cuba ciò è impossibile. La censura la obbliga a inviare i suoi articoli per e-mail a degli amici all’estero, incaricati di aggiornarle il sito. E per far conoscere la sua opinione sull’isola, si è messa a stampare volantini con i suoi testi o a salvarli su CD o chiavette per poi distribuirli di nascosto.
La macchina della censura ha le sue falle, a Cuba come in Cina. Zeng Jinyan sfrutta i server intermedi che permettono di camuffare un sito ed evitare che venga bloccato. A volte poi sono le stese autorità ad autorizzare la diffusione del suo blog. «Non tanto per gentilezza, quanto per monitorare le discussioni e cercare di capire cosa pensa la gente. Le autorità hanno compreso il potere del web e in un certo senso ne hanno paura», spiega Barbara Miller.
Altri sviluppi
“Il popolo iraniano deve imparare a vivere senza eroi”
Luci e ombre della celebrità
Yoani Sánchez, Zeng Jinyan e Farnaz Seif sono ormai conosciute in tutto il mondo. Una fama che garantisce loro un margine di protezione in più e ha permesso loro di vincere anche qualche battaglia. Non è un caso che dopo diversi anni di prigionia, Zeng Jinyan sia finalmente riuscita a partire per Hong Kong con la figlia, rinunciando però al marito, tuttora agli arresti domiciliari.
Le voci critiche però non mancano. Yoani Sánchez è stata accusata più volte di collaborare con gli Stati Uniti. Nel 2011 la televisione cubana l’aveva descritta come una “mercenaria” impegnata in una “cyberguerra” al soldo di Washington. E tra gli stessi dissidenti c’è chi la ritiene semplicemente un’opportunista. Al festival del cinema di Soletta, un’associazione cubana ha distribuito volanti critici nei confronti di Yoani Sánchez, che tra il 2002 e il 2004 ha vissuto proprio in Svizzera.
Quanto a Farnaz Seif, malgrado l’esilio non si è liberata completamente dall’oppressione del regime. «Quando eravamo a Lugano a presentare il film a una classe di studenti liceali, è stata avvicinata da un gruppo di sostenitori del presidente Mahmud Ahmadinejad che le hanno intimato cortesemente di tacere, spiega Barbara Miller. Non appena se ne sono andati, ci hanno raggiunte due giovani iraniani. Con le lacrime agli occhi si sono scusati per essere rimasti in silenzio. Hanno detto di aver avuto paura e hanno ringraziato Farnaz Seif per la sua testimonianza e il suo coraggio».
In conformità con gli standard di JTI
Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.