Chi decide sulla libertà di parola?
Dopo gli eventi scioccanti che hanno accompagnato la transizione presidenziale negli Stati Uniti e l'oscuramento dell'ex presidente Trump da parte di Twitter, Facebook e YouTube, ci si chiede come si possa rafforzare la democrazia e domare i giganti della tecnologia. Alcune proposte di soluzione dagli Stati Uniti, dall'Europa e dalla Svizzera.
L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso è stato uno shock. Incitata dallo stesso presidente uscente, una folla ha cercato di impedire la conferma ufficiale di Joe Biden.
Il successivo blocco degli account dell’ex presidente degli Stati Uniti da parte dei giganti tecnologici Twitter, Facebook e YouTube ha messo in primo piano una questione cruciale: il controllo della libertà di espressione.
La posta in gioco è niente meno che il futuro della democrazia, ha affermato sulla rivista svizzera online persoenlich.comCollegamento esterno Dirk Helbing, professore di scienze sociali computazionali al Politecnico di Zurigo: “Se la società civile pluralista non prende il sopravvento, la democrazia è finita. Dobbiamo risolvere i nostri problemi con una competizione di idee, non con la violenza o con misure totalitarie”.
Le origini del problema
Come si è arrivati a questo punto? Nel 1996, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una postilla al Primo Emendamento della Costituzione statunitense, che garantisce la libertà di espressione. La sezione 230 del “Communications Decency Act” assicura l’immunità alle grandi compagnie tecnologiche per tutti i contenuti che gli utenti pubblicano sulle loro piattaforme online. In breve, è un’esenzione dalla responsabilità legale.
- Privatizzazione della democrazia: nelle democrazie liberali, gran parte del controllo sulla libertà di espressione è esercitato da grandi aziende tecnologiche private.
- Questione di potere: quello che succede sulle piattaforme online ha conseguenze nel mondo reale.
- Gioco facile: le corporazioni tecnologiche operano a livello globale, ma senza una regolamentazione globale.
- Davide contro Golia: gli Stati che cercano di imporre regole ai giganti della tecnologia devono farlo bilateralmente.
- Capitalismo della sorveglianza: le aziende tecnologiche private non si occupano di democrazia e libertà di espressione; l’unica cosa che interessa loro sono i dati degli utenti e le entrate pubblicitarie.
- Riprendere il controllo: gli Stati devono stabilire le regole, altrimenti il sistema dell’informazione, linfa vitale della democrazia, finirà per essere usato per altri scopi.
- Poiché tutti i giganti della tecnologia hanno sede negli Stati Uniti, una regolamentazione in quel Paese manderebbe forti segnali a livello globale.
- Fattore tempo: dopo 15 anni di sviluppo non regolamentato, è il momento di anteporre gli interssi democratici a quelli commerciali.
La normativa ha aperto un vaso di Pandora, spalancando la porta alla pubblicazione sfrenata di tutti i tipi di contenuti su internet, osserva la giornalista svizzera Adrienne Fichter, specializzata in questioni di politica della rete.
La chiave per risolvere il problema sta quindi nella revisione di questo lasciapassare giuridico?
La regolamentazione negli Stati Uniti
Sì, dice l’esperto statunitense Stephen Hill, ex direttore del Center for Humane Technology e pubblicista. È tempo di resettare il sistema, scrive in un saggioCollegamento esterno pubblicato dalla rivista online Zocalo Public Square.
L’abrogazione della “legge oscura” da parte del Congresso non sarebbe la soluzione perfetta, dice. “Ma renderebbe i media gestiti dai giganti della tecnologia più responsabili, riflessivi e potenzialmente responsabili per la parte peggiore dei loro contenuti tossici, compresi i contenuti illegali come la pornografia infantile”, afferma Hill.
Egli sostiene che il governo degli Stati Uniti dovrebbe tenere a freno le aziende digitali, come ha fatto con le compagnie telefoniche, ferroviarie ed energetiche. In particolare, chiede i seguenti passi:
- Le attività commerciali di Facebook e compagni devono essere vincolate a una licenza digitale che definisce regole e obblighi precisi.
- Le aziende tecnologiche devono chiedere il permesso agli utenti prima di raccogliere qualsiasi dato.
- Servono incentivi per passare a modelli economici basati sull’abbonamento per ridurre il numero di utenti.
- Occorre mettere un freno alle tecniche di coinvolgimento come l’iper-targeting personalizzato dei contenuti, in particolare pubblicitari.
- L’oligopolio dei giganti della tecnologia deve essere spezzato, le reti devono essere frammentate in molte reti più piccole.
Questo è esattamente il punto dove anche Marietje Schaake vede anche la necessità di agire.
“Le compagnie tecnologiche sono troppo potenti, specialmente il piccolo gruppo di attori globali che gestisce le piattaforme sociali e i motori di ricerca”, afferma la presidente del Cyber Peace Institute di Ginevra e direttrice per la politica internazionale del Cyber Policy Center della Stanford University.
“Non solo sono capaci di muovere masse di consumatori, ma anche masse di elettori. Ora questo potere deve essere affrontato”, dice Schaake in un’intervista a SWI swissinfo.ch*. L’olandese è a favore di una regolamentazione analoga a quella delle banche, delle aziende farmaceutiche o dell’industria automobilistica.
“Da un lato, ci devono essere obblighi e standard chiari per le aziende. D’altra parte, gli organi di controllo e le autorità di regolamentazione devono essere in grado di imporre gravi sanzioni in caso di violazioni. Questi organismi devono avere sia le conoscenze necessarie, sia il potere e la capacità di far rispettare tali misure e di indagare su quello che sta succedendo”.
Approccio più olistico
A differenza di Hill, Claire Wardle di First DraftCollegamento esterno, un’iniziativa globale contro la disinformazione, non crede che la soluzione risieda nella rimozione delle norme che permettono l’impunità delle aziende. “Senza questa protezione, le piattaforme potrebbero essere spinte a rimuovere sia informazioni vere che false”, dice Wardle a SWI swissinfo.ch. “Invece di concentrarci sulla rimozione di informazioni false, dovremmo preoccuparci in primo luogo del perché la gente le pubblica e le diffonde “.
Wardle ritiene che lo Stato debba promuovere un “contesto informativo più sano” sostenendo i fornitori locali. “Mentre i fornitori locali di notizie stanno morendo, sempre più persone si affollano sui media sociali per informarsi”.
Wardle crede che una soluzione su scala globale sia possibile. “L’ONU ha stabilito degli standard per proteggere la libertà di espressione, a cui molte piattaforme si orientano. Quindi sarebbe anche possibile implementare un meccanismo di responsabilità globale delle aziende “.
Dinamiche europee
Alla fine del 2020 la Commissione europea – il braccio esecutivo dell’UE – ha presentato una legge sui servizi digitaliCollegamento esterno che mira a rendere i giganti tecnologici globali più responsabili. Il principio del progetto: ciò che è vietato nel mondo reale dovrebbe essere vietato anche nel cyberspazio.
Per Adrienne Fichter, nella proposta spicca una novità: “La legge porterebbe un’azione uniforme secondo procedure definite e istituzionali. Con punti di contatto, scadenze vincolanti e la possibilità di intraprendere azioni legali nei tribunali statali”. Fichter ricorda tuttavia che Google ha già annunciato una feroce opposizione al piano di regolamentazione.
Le aziende si vedrebbero confrontate con l’opposizione combinata di 27 Stati in un colpo solo. Inoltre, Bruxelles spera che il quadro normativo dell’UE diventi il nuovo punto di riferimento che gli altri Paesi dovranno seguire.
La Svizzera: il suo approccio alla regolamentazione
Come la maggior parte dei Paesi, il governo svizzero ha finora fatto affidamento sull’autoregolamentazione. Ma qualcosa sta accadendo anche a Berna. “L’amministrazione federale sta attualmente chiarendo in che misura sia necessario e possibile un approccio svizzero di governance nei confronti delle piattaforme online”, scrive l’Ufficio federale delle comunicazioni (UFCOM) rispondendo alle domande di SWI swissinfo.ch.
Sulla base di un rapporto del 2019, le autorità stanno ora esaminando in che misura l’uso dell’intelligenza artificiale o degli algoritmi da parte dei motori di ricerca o dei social media influenzi la formazione dell’opinione pubblica e della volontà politica. Tuttavia, la pubblicazione del relativo rapporto non è prevista prima della fine di quest’anno.
Le autorità svizzere seguono da vicino il processo legislativo nell’UE nel settore dei servizi digitali. Tuttavia, è ancora troppo presto per valutare quanto il regolamento proposto da Bruxelles possa essere rilevante per la Svizzera.
L’UFCOM rivela però almeno questo: nel prossimo rapporto, non si esaminerà “in primo luogo la necessità di un allineamento del diritto svizzero con il diritto dell’UE, ma piuttosto un approccio di governance svizzero”.
Pressione dal parlamento
Anche nel parlamento svizzero ci si sta muovendo. Il consigliere nazionale Balthasar Glättli ha presentato una mozione che chiede un recapito in Svizzera per le piattaforme online internazionali. “La mia mozione sarebbe rilevante per gli svizzeri che ritengono di essere stati erroneamente bloccati, ma non ottengono risposta dai consueti servizi di contatto online”, ha detto Glättli.
Inoltre la misura servirebbe anche ai residenti in Svizzera che vogliono difendersi da abusi razzisti o da diffamazione personale.
Per Martin Steiger, specialista di diritto nello spazio digitale, la proposta di Glättli è un passo nella giusta direzione, come ha detto in un’intervista a swissinfo.ch: “Se avessero un recapito in Svizzera a cui rivolgersi, le persone colpite potrebbero difendersi più rapidamente”. Le due camere del Parlamento hanno approvato la mozione; ora spetta al governo pronunciarsi.
Il consigliere nazionale Jon Pult ha inoltre chiesto al governo lo scorso dicembre informazioni sulla pubblicità politica su Internet. Vuole anche sapere se il governo vede la necessità di elaborare regole per le campagne personalizzate.
*L’intervista con Marietje Schaake è stata condotta dalla mia collega May Elmahdi-Lichtsteiner
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