Elezioni europee: “Dopo la Brexit, la Svizzera non può più fare cherry-picking”
Il politologo Giorgio Malet ha studiato come la Brexit stia influenzando il desiderio di lasciare l'UE in altri Paesi. In questa intervista, Malet parla anche delle prossime elezioni europee, dell'ascesa della destra radicale e delle relazioni bilaterali con la Svizzera.
Sembra ovvio: quando la Brexit sembrava un successo, un numero crescente di persone in altri Paesi dell’Unione Europea ha accarezzato l’idea di andarsene. Da allora la situazione è cambiata. Giorgio Malet ha studiato questa correlazione.
Il politologo è specializzato in politica europea e rappresentanza democratica presso il Politecnico di Zurigo.
Nell’intervista, Malet descrive anche la sua prospettiva sul dibattito sull’UE in Svizzera e le sue aspettative per le elezioni europee.
SWI swissinfo.ch: Insieme a Stefanie Walter, ha studiato come gli sviluppi della politica britannica durante la Brexit abbiano influenzato il sostegno all’uscita dall’UECollegamento esterno in altri Paesi. Quando è stata l’ultima volta che lasciare l’Unione Europea è stato di tendenza?
Giorgio Malet: Subito dopo la Brexit. All’epoca, molti altri partiti in Europa chiedevano un’iniziativa simile per l’uscita del proprio Paese dall’UE. Ma coloro che propugnavano l’uscita hanno poi perso slancio. I riverberi della Brexit sono cambiati. Si è visto che i negoziati non sono stati così favorevoli per la parte britannica e allo stesso tempo l’UE è diventata più popolare nel resto d’Europa.
La maggior parte delle persone in Europa non ha seguito molto da vicino i negoziati sulla Brexit. Come mai si è fatto questo legame?
Riteniamo che la gente non abbia guardato alla stesura delle leggi, ma agli eventi politici. Come abbiamo potuto dimostrare nella nostra analisi, alcuni eventi della politica interna britannica sono finiti nelle cronache internazionali.
Questo ha avuto un impatto sulla simpatia verso l’UE. Ad esempio, la popolazione del resto d’Europa è diventata meno euroscettica quando il Governo dell’allora prima ministra britannico Theresa May ha perso il voto parlamentare sull’accordo Brexit.
Vi è stato un effetto cumulativo: un fallimento dopo l’altro ha portato a un cambiamento di opinione. La politica interna britannica ha segnalato all’elettorato europeo che sarebbe stato difficile attuare un’uscita dall’UE.
L’elettorato guarda anche agli sviluppi politici all’estero?
Accade sempre più spesso. Non appena gli eventi esteri fanno notizia. Se si verifica una crisi economica, ad esempio, la gente tende a essere più indulgente nei confronti del proprio Governo quando vede che anche altri Paesi sono in crisi.
Ci sono altri esempi in cui questo aspetto è stato analizzato. Ad esempio, uno studio mostra come i referendum sull’immigrazione in Svizzera influenzino la copertura mediatica dell’immigrazione in Germania. E c’è stato uno studio che ha mostrato come il razzismo sia diventato più aperto in Europa dopo l’elezione di Donald Trump. Alcune persone hanno avuto la percezione che non dovevano più nascondere il proprio razzismo latente.
Questo funziona anche in termini di popolarità politica? Se il governo di ultradestra di Giorgia Meloni si dimostra vincente in Italia, questo ha un impatto sulla volontà di votare per il Rassemblement National in Francia?
Gli effetti di contagio a breve termine possono verificarsi dopo elezioni e referendum sorprendenti. Ad esempio, dopo il successo del referendum contro la Costituzione europea in FranciaCollegamento esterno. Dopo questo voto, il sostegno alla Costituzione è diminuito anche in altri Paesi.
Lei fa parte del progetto di ricerca DisintegrationCollegamento esterno. State studiando come si sta svolgendo l’uscita del Regno Unito dall’UE e se gli svizzeri e le svizzere vogliono tagliare i ponti con Bruxelles. La Confederazione, però, è un caso diverso: non ha mai aderito all’UE, quindi probabilmente ha meno legami e intrecci.
Nei negoziati per la Brexit, i Governi dell’UE volevano dare l’esempio per dimostrare che non si può semplicemente lasciare l’Unione e poi fare del cherry-picking [selezionare solo quello che fa comodo, ndr]. Dopo la Brexit, le persone responsabili delle negoziazioni per la Svizzera hanno avuto a che fare con una controparte molto più dura.
Bruxelles ha chiaramente indicato a Berna che il cherry-picking era finito. L’indebolimento degli attuali accordi bilaterali porterà a lungo termine a un deterioramento delle relazioni tra Svizzera e UE.
Ciò si ripercuoterà sull’industria della tecnologia medica e sul settore energetico, come sta già accadendo con le università. La Confederazione deve quindi chiedersi dove vuole essere tra 30 anni, in un mondo in cui l’interdipendenza aumenterà.
Ma, almeno secondo l’opinione pubblica, la Svizzera non è favorevole a una maggiore integrazione europea.
Innanzitutto, nel dibattito elvetico si parla molto poco delle relazioni di Berna con Bruxelles e dell’UE in generale. Quando sono arrivato qui dall’Italia sono rimasto sorpreso dal fatto che un tema così importante sia poco discusso. L’UE è trattata in modo negativo. I resoconti sono spesso molto coloriti e di parte, forse perché questo garantisce l’attenzione.
Di conseguenza, da molto tempo non ci sono voci a favore dell’UE nel dibattito pubblico in Svizzera. A parte l’operazione Libero, sono in pochi a parlarne. La maggior parte ha paura di dire quello che pensa.
Sono queste persone a dirglielo? O come fa a saperlo?
È una mia osservazione e una mia impressione. I politici e le politiche non sono eletti solo per rispondere alle richieste del loro elettorato, ma hanno anche il dovere di convincere i cittadini e le cittadine di una certa politica in cui credono. Ad esempio, una forte cooperazione con l’UE.
Quali vantaggi avrebbe la Svizzera da una maggiore integrazione europea?
La Svizzera è già fortemente integrata sotto molti aspetti e, se le relazioni con l’UE si deteriorano, ha qualcosa da perdere.
Coloro che sono contrari a legami più stretti con l’UE, come l’Unione democratica di centro (UDC, destra conservatrice), dicono la stessa cosa: la Confederazione è già fortemente integrata. Il timore è che la Svizzera entri nell’UE dalla porta di servizio.
Il punto è questo: l’UE ha molti partner. Deve concordare insieme le regole e poi tutti devono rispettarle. La Svizzera vuole lasciare aperta la possibilità di dire no a ogni singola questione, ma la cooperazione internazionale non funziona così.
Sono necessari accordi su più livelli e su più temi. Inoltre, Berna è già costretta ad accettare molti regolamenti sulle questioni commerciali, senza poter avere voce in capitolo nella definizione delle politiche dell’UE.
Il 6 giugno iniziano le elezioni del Parlamento europeo. I partiti populisti di destra che vogliono fare del cherry-picking per i loro Paesi, sembra abbiano il vento in poppa. L’Unione Europea cambierà dopo queste elezioni?
Non cambierà molto. La destra radicale è passata da un atteggiamento scettico nei confronti di Bruxelles a una posizione critica. Non chiederanno più l’uscita dall’UE, perché hanno capito che questa strategia non sarà vincente. Dopo tutto, sono loro a formare il governo in Paesi come l’Italia.
Ma l’AfD in Germania, per esempio, non sembra diventare più moderata..
Ma non tutti i partiti di destra radicale sono come l’AfD. Il fattore decisivo è questo: anche all’interno della destra radicale c’è una forte disunione. Nel Parlamento europeo sono divisi tra due gruppi.
Cosa si aspetta dalle elezioni europee?
Al momento, la maggior parte delle simulazioni mostra che la destra radicale vincerà in termini netti. I socialdemocratici, i liberali e la sinistra perderanno probabilmente qualche seggio. I conservatori dovrebbero rimanere stabili.
Quindi se la destra radicale vincerà le elezioni, non inizierà a smantellare l’UE?
Non sarà in grado di farlo, perché la coalizione di governo composta da conservatori [in seno al Partito Popolare Europeo], socialdemocratici e liberali molto probabilmente rimarrà.
Dal punto di vista politico, ci sarà un impatto sull’immigrazione e sulla politica ambientale. La destra radicale e i conservatori stanno già bloccando cose come il Green Deal europeo. È probabile che i conservatori si dividano ulteriormente al loro interno, tra coloro che sono aperti a lavorare con la destra radicale e coloro che vogliono isolarla.
Nel complesso, sembra che lei si aspetti stabilità.
Non so se stabilità è la parola giusta. Ma l’UE continuerà.
Il modo in cui l’integrazione europea si è sviluppata negli ultimi decenni assomiglia a un modello di failing forward [in sostanza fallire riuscendo, ndr]. C’è una crisi e i Governi si accordano su una soluzione. Ci sono preferenze e situazioni nazionali diverse, quindi si pattuisce una soluzione in base al minimo comune denominatore. Non è mai una soluzione perfetta, ma c’è un progresso costante.
Una volta raggiunto un accordo, l’incompletezza della soluzione porta prima o poi a una nuova crisi.
Questo modello esiste solo nell’UE?
È unico in quanto l’UE è la forma più avanzata di cooperazione internazionale.
A lungo termine, ciò che l’Europa ha raggiunto è impressionante: una massiccia integrazione. Gli Stati sovrani hanno accettato di trasferire competenze a un’istituzione sovranazionale in un arco di tempo relativamente breve. È chiaro che le persone giovani si sentono molto più europee di quelle anziane.
Non si può cambiare l’identità delle persone in una settimana o in dieci anni. Ampie fasce della popolazione, per lo più ben istruite, godono dei benefici dell’integrazione europea: vivere, lavorare, studiare e fare affari all’estero. Questa è la prospettiva a lungo termine.
Nel breve e medio termine, però, questo modello di failing forward – che si equilibra di crisi in crisi – mina la performance economica dell’UE e la sua legittimità tra la popolazione.
E come può l’UE uscire da questo circolo vizioso?
È molto difficile. All’interno dell’UE, ogni Paese ha il diritto di porre il veto su ogni decisione.
Un approccio potrebbe essere un’Europa a più velocità: i Paesi che decidono a favore di una maggiore cooperazione dovrebbero unire le forze e continuare assieme. Non sarebbe la prima volta che l’Europa lo fa, ma è ora di portare avanti questo processo.
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Perché la Svizzera non vuole aderire all’UE
Articolo a cura di David Eugster
Traduzione di Daniele Mariani
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