La contro-narrazione: come contrastare i discorsi d’odio su internet?
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I discorsi d'odio sono considerati un pericolo per la società e la democrazia. In un'epoca in cui non c'è quasi più controllo sui post pubblicati su Facebook e Instagram, l'intervento di persone volontarie diventa fondamentale per combattere questo fenomeno attraverso il cosiddetto counterspeech.
“Le persone che diffondono discorsi d’odio sono molto ben organizzate”, dice Anne-Céline Machet. Si coordinano e uniscono le loro forze. Questo preoccupa Machet, direttrice di una fondazione femminista a Ginevra. Fin dall’infanzia, alle donne viene insegnato a essere discrete e a non occupare troppo spazio, un atteggiamento che viene rafforzato nel mondo digitale.
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L’odio online a cui sono direttamente esposte le politiche o le giornaliste – e indirettamente tutte le donne che leggono i messaggi d’odio – rappresenta una minaccia per la democrazia. La conseguenza: molte donne scelgono di restare in silenzio. “Quelle che si sono esposte si sono ritirate dalla vita pubblica”, si rammarica Machet. Per evitare che ciò accada, l’attivista crede nella sensibilizzazione e nell’educazione: “Dobbiamo spiegare che è possibile contrastare i discorsi d’odio”.
Cos’è un discorso d’odio?
Il discorso d’odio (hate speech, in inglese) comprende insulti e denigrazioniCollegamento esterno rivolti a una persona a causa della sua appartenenza a un gruppo sociale.
Uno studio condotto dall’istituto di ricerca SotomoCollegamento esterno nel 2022 ha rivelato che l’86% della popolazione svizzera considera la violenza digitale un fenomeno molto o abbastanza diffuso. Tuttavia, il problema interessa tutti i Paesi del mondo, così come la consapevolezza della sua gravità. La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranzaCollegamento esterno definisce i discorsi d’odio una “grave minaccia alla coesione di una società democratica”. Inoltre, la Commissione avverte che, se ignorati, possono favorire la violenza fisica e alimentare i conflitti.
Strategie per contrastare i discorsi d’odio
“Vogliamo rendere la rete di nuovo un luogo sicuro per le donne e le minoranze di genere”, afferma Anne-Céline Machet, aggiungendo che questo è almeno l’obiettivo del progetto della sua fondazione. Già mesi prima del lancio della campagna online, prevista per l’8 marzo, in occasione della Giornata internazionale della donna, la Fondation pour l’égalité de genre ha sviluppato una strategia per contrastare l’hate speech.
Nel loro intento, Machet e il suo team sono stati supportati dal progetto svizzero “Stop Hate Speech”. “Molte persone sono pronte a rispondere con commenti positivi”, spiega Machet. “Inoltre, monitoriamo, segnaliamo e documentiamo i discorsi d’odio”.
Nel 2025, il problema della diffusione dell’odio online attraverso i social preoccupa molti esperti ed esperte. A metà gennaio, poco prima dell’insediamento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Mark Zuckerberg ha lasciato molte persone senza parole quando ha annunciato che, in futuro, Facebook e Instagram daranno maggiore importanza alla libertà di espressione, riducendo i filtri automatici e le restrizioni e adottando un approccio più permissivo nei confronti dell’hate speech.
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L’1% è responsabile di quasi due terzi dei discorsi d’odio
Grandi piattaforme come TikTok, Facebook e Instagram dominano il mondo digitale. Tuttavia, l’intervento più promettente per contrastare i discorsi d’odio potrebbe avvenire su scala più ridotta: all’interno di reti e gruppi di messaggistica, dove le persone si uniscono per rispondere all’odio attraverso il cosiddetto counterspeech (contro-narrazioneCollegamento esterno).
Secondo il progetto svizzero “Stop Hate Speech”, circa l’1% di tutti gli account online è responsabile del 65% dei discorsi d’odio su internet. Questo dato lascia spazio alla speranza: nei workshop organizzati da “Stop Hate Speech” emerge chiaramente che, se sono poche le persone a diffondere odio, ne bastano anche poche per contrastarle. Lottare contro l’odio in rete, però, non significa rispondere con l’aggressività, ma piuttosto identificare e contestare espressioni d’odio con risposte brevi e dirette, rafforzando le idee positive, inclusive e costruttive.
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Sophie Achermann è la fondatrice di “Stop Hate Speech”.
Diritto penale e moderazione dei contenuti
Alcune espressioni di odio rientrano nell’ambito del diritto penale, ad esempio sotto forma di diffamazione personale o, nei Paesi dell’Unione europea, in base al pacchetto relativo alla legge sui servizi digitaliCollegamento esterno. Tuttavia, Sophie Achermann è convinta che il diritto penale, da solo, non sia sufficiente per eliminare il problema dell’hate speech.
La prima ricercaCollegamento esterno condotta da “Stop Hate Speech” e dal Politecnico federale di Zurigo (ETH) nel 2021 è giunta a una conclusione analoga: “Sebbene la moderazione dei contenuti – sia da parte dei governi che delle aziende dei social media – possa ridurre l’ostilità online, tali politiche rischiano di sopprimere discorsi legittimi e disperdere i discorsi d’odio, anziché ridurli”.
Sempre più organizzazioni internazionali e gruppi della società civile hanno adottato la contro-narrazione come strategia per contrastare l’hate speech. Nel frattempo, negli ultimi quattro anni, il potere si è concentrato nelle mani di pochi e il legame tra governi e grandi aziende si è rafforzato. Il proprietario di X/Twitter, Elon Musk, ha dichiarato di essere un sostenitore del presidente indiano Narendra Modi, accusato di incentivare i discorsi d’odio contro i musulmaniCollegamento esterno. In India, dove la libertà d’informazione è già in crisiCollegamento esterno, si teme che la moderazione dei contenuti pubblicati in rete diventi uno strumento per reprimere ogni forma di opposizione nei confronti del partito di governo.
Il “trattamento empatico” è efficace
“Empathy-based counterspeech can reduce racist hate speech in a social media field experiment” è il titolo di uno studio condotto dall’ETH nel 2021. La ricerca, disponibile online, è già stata letta oltre 30’000 volte, un successo insolito per una pubblicazione scientifica. Nella loro analisi, le esperte e gli esperti hanno osservato più di 1’000 profili Twitter in lingua inglese che sembravano gestiti da persone reali e che pubblicavano discorsi d’odio.
Alcuni di questi account sono serviti come gruppo di controllo, mentre agli altri sono state inviate risposte basate su tre diverse categorie. La prima puntava su tweet divertenti, ad esempio con meme raffiguranti animali, la seconda ricordava alle autrici e agli autori che i loro post erano pubblici e visibili ai loro familiari e ai datori di lavoro. Infine, la terza faceva appello all’empatia con messaggi del tipo: “Per gli afroamericani è davvero doloroso vedere che le persone usano questo genere di linguaggio”.
La ricerca ha evidenziato che né i meme né il riferimento alla visibilità pubblica dei tweet hanno dissuaso le persone dal diffondere discorsi d’odio online. Le risposte basate sull’empatia hanno avuto un effetto positivo: le utenti e gli utenti hanno postato meno tweet xenofobi e hanno ridotto in generale la loro attività sulla piattaforma e, in alcuni casi, hanno persino cancellato il loro messaggio d’odio.
C’è chi si oppone alla contro-narrazione
L’istituto “The Future of Free Speech” della Vanderbilt University nel Tennessee raccomanda lo studio sulla contro-narrazione condotto dall’ETH di Zurigo nel suo kit di strumentiCollegamento esterno per il counterspeech.
È interessante notare che chi ha una posizione critica nei confronti dei filtri e della moderazione dei contenuti attribuisce comunque un valore molto alto alla libertà di espressione ed è, allo stesso tempo, favorevole alle strategie della contro-narrazione. Nel 2023, Jacob Mchangama e Natalie Alkiviadou, membri dell’istituto americano, hanno sottolineato in una pubblicazioneCollegamento esterno che “il counterspeech si è rivelato una strategia promettente, mentre la moderazione censoria dei contenuti, pur mirata a contrastare l’odio online, ha spesso avuto effetti negativi sui dissidenti che dipendono dai social media per opporsi alla propaganda ufficiale e alla censura in Paesi come Siria e Afghanistan”.
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Per Mchangama e Alkiviadou, la contro-narrazione è l’unica strategia efficace per contrastare l’odio in internet.
30’000 commenti in un mese
Sophie Achermann, “Stop Hate Speech” e la Fondazione Public Discourse, nata dal progetto, collaborano ora con i principali media svizzeri per monitorare e analizzare scientificamente i commenti online. Una volta, racconta Achermann, il team si è imbattuto in un account che aveva pubblicato 30’000 commenti in un solo mese. “Abbiamo tutti pensato: non può essere una persona. E invece lo era”.
Le esperienze scaturite da queste analisi vengono poi condivise con organizzazioni interessate, come la Fondazione per la parità di genere di Ginevra, con la speranza di generare un effetto a catena. “Vogliamo motivare la gente comune, non necessariamente politiche o politici con 100’000 follower”, spiega Achermann. “Non servono moltissime persone per eclissare l’1% di utenti responsabile del 65% dei discorsi d’odio online”, afferma con convinzione.
Le vittime non dovrebbero fare della contro-narrazione
Uno degli obiettivi di “Stop Hate Speech” è insegnare alle vittime come ridurre l’impatto dei discorsi d’odio. Tuttavia, la vittima non dovrebbe mai rispondere con dei counterspeech. Esporsi a insulti e attacchi personali può infatti rappresentare un peso psicologico enorme per chi è già il bersaglio di questo fenomeno.
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Ispirato da “Stop Hate Speech”, Caspar Weimann, residente in Germania settentrionale, coordina gruppi di chat che rispondono ai discorsi d’odio. “Se qualcuno condivide un link che necessita di una contro-narrazione, un’ampia rete di artisti e operatori culturali è pronta a scrivere dei commenti”, spiega Weimann. Questo network sta crescendo grazie ai seminari che Weimann tiene insieme ad altre persone appartenenti al mondo dell’arte e della cultura.
“Io rispondo ai discorsi d’odio misogini”, afferma Weimann, “ma se diventano transfobici, li condivido nel gruppo e chiedo ad altre persone di intervenire”. Durante l’intervista, Weimann indossa un cappello con la scritta “Dio è trans”.
Aziende gigantesche e spazi di condivisione
Di recente, Caspar Weimann ha partecipato a un progetto su TikTok, in cui sono stati pubblicati video ispirati allo stile dei coach di mascolinità, con l’obiettivo di raggiungere uomini a rischio di radicalizzazione misogina. I video, che promuovevano la vulnerabilità e l’espressione delle emozioni, sono stati visualizzati milioni di volteCollegamento esterno e condivisi migliaia di volte. Per Weimann è fondamentale che le artiste e gli artisti non abbandonino queste piattaforme, ma le occupino e le utilizzino in modo attivo.
Secondo Weimann, dietro ai social media ci sono “aziende gigantesche che possono essere incredibilmente pericolose”, ma allo stesso tempo questi spazi sono “luoghi di condivisione e interazione sociale, in cui viene plasmata la nostra democrazia”.
Alla domanda su quante persone partecipino alle chat di contro-narrazione, Weimann risponde con un “Vediamo…”, mentre prende in mano il cellulare: “250 su WhatsAppe 95 su Signal”. Bastano poche persone per fare la differenza con il counterspeech.
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Altri sviluppi
La nostra newletter sulla democrazia
Articolo a cura di Mark Livingston
Traduzione di Luca Beti
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