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La «tempesta» Brexit, ovvero nessun motivo per lamentarsi

Manifestanti anti-Brexit nelle strade di Londra dopo l'annuncio dei risultati. Reuters

Democrazia diretta inadeguata e pericolosa! L’indignazione globale dopo il sì britannico alla Brexit è enorme. Decisioni popolari problematiche non sono però una catastrofe. Servono piuttosto da ammonimento quando un sistema politico ha bisogno di più democrazia.

Per milioni di cittadine e cittadini britannici si è trattato di un brusco risveglio: «Siamo fuori» ha commentato il giornale inglese Daily Mirror il 24 giugno. Questo il duro verdetto del plebiscito sulla Brexit.

Il giorno prima, con una partecipazione record al voto, almeno per i parametri britannici (72% degli oltre 46 milioni di persone con diritto di voto ), il 52% si è espresso per l’uscita dall’Unione europea.

Questo articolo fa parte di #DearDemocracy, la piattaforma per la democrazia diretta di swissinfo.ch.

La storia è questa: il Brexit ha funto da segnale d’allarme, adesso l’UE deve promuovere la democrazia diretta tra i suoi cittadini, analizza lo specialista di democrazia Bruno Kaufmann.

Il risultato drammatico della votazione – la Gran Bretagna è, con l’eccezione della Groenlandia, il primo paese che vota per uscire dall’UE – ha scatenato in Europa un’ondata di scetticismo verso la democrazia: «Votazioni ed elezioni fanno male alla democrazia», ha scritto per esempio il giornalista e scrittore belga David Van ReybrouckCollegamento esterno nel quotidiano britannico The Guardian. Reyboruck propone che tutte le decisioni importanti siano prese in futuro da persone estratte a sorte con criteri che ne assicurino la rappresentatività.

Kenneth Rogoff, professore a Harvard, va anche oltreCollegamento esterno: «Quando in una votazione popolare una maggioranza semplice può prendere una simile decisione, non si tratta più di una democrazia, ma di una roulette russa».

Rogoff, che è stato capo economista del Fondo monetario internazionale (FMI) sembra anche convinto del fatto che le cittadine e i cittadini britannici non avessero alcune idea di ciò su cui dovevano esprimersi il 23 giugno.

«Difendete la democrazia dal popolo»

In effetti nella reazione virulenta e globale alla decisione sulla Brexit non si rispecchiano tanto i dubbi sul contesto e lo svolgimento del referendum, quanto piuttosto una critica fondamentale alla democrazia. O come ha scritto il commentatore indiano Rajeev SrinivasanCollegamento esterno nel giornale online First-Post: «La democrazia è troppo importante perché possa essere lasciata in mano al popolo».

I toni di questi autori post-democratici elitari si contrappongono consapevolmente ai populisti «vicini alla gente» situati agli estremi dello spettro politico. Anche questi ultimi non hanno una grande opinione della divisione dei poteri e vorrebbero riporre tutto il potere, senza mediazioni, nelle mani del popolo sovrano. E festeggiano la decisione sulla Brexit – come ha fatto il populista di destra olandese Geert WildersCollegamento esterno – nei termini di un «un opportuno gesto di liberazione da parte dei cittadini».

Anche se nelle dimensioni e nelle conseguenze la tempesta della Brexit va ben al di là di tutte le precedenti «analisi di voto», anche in passato ci sono state discussioni transfrontaliere accanite sul senso e i limiti degli strumenti di democrazia diretta. Basti ricordare le numerose votazioni su trattati dell’UE (Maastricht, Nizza, e Lisbona) o sulla Costituzione europea. Ma anche in Svizzera –rispetto alla democrazia diretta di stampo moderno la comunità politica più attiva al mondo – le votazioni su iniziative controverse come quella per il divieto di costruzione di minareti (2009) e l’iniziativa «sull’emigrazione di massa» (2014) hanno scatenato dibattiti intensi su chi quando come e su cosa possa decidere.

Ogni volta ci si lamenta – come ha fatto il professore Rogoff di Harvard– che le cittadine e i cittadini «erano male informati» e che «la stampa ha fatto male il suo lavoro».

Quando i riformatori si fanno lo sgambetto da soli

Se è nella natura delle cose che la minoranza faccia fatica ad accettare la sconfitta, non ha però molto senso giudicare un sistema politico maturato nel corso di secoli sulla scorta del risultato di una sola votazione. In questi casi l’impazienza alimentata dalle emozioni finisce per intralciare anche le voci tendenzialmente favorevoli alle riforme. Sarebbe meglio prendere sul serio la tendenza globale verso una maggiore partecipazione sotto forma di diritti popolari e di votazioni su singole questioni e integrarla nel più ampio contesto della democrazia rappresentativa. Di quest’ultima fanno parte principi, procedure e applicazioni.

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Fra i principi bisogna difendere prima di tutto (come fanno anche i post-democratici) lo Stato di diritto, che protegge sia l’individuo, sia le minoranze. Non si possono d’altro canto mettere in discussione neppure la delega e la partecipazione.

Una democrazia moderna ha bisogno di tutti e tre gli elementi. La loro interazione è regolata da varie procedure. Decisiva in questo contesto è la divisione dei poteri, rispettivamente il loro equilibrio, i cosiddetti «check and balances». Una sovranità popolare assoluta, come viene chiesta da populisti di destra e di sinistra, è altrettanto controproducente dell’esclusione di cittadine e cittadini dal processo decisionale.

Per capire queste relazioni e gli aggiustamenti sempre necessari ci vuole pratica. «Molta pratica», come ha scritto la Süddeutsche Zeitung in un editoriale dedicato alla Brexit dal titolo «Ciò che i britannici potrebbero imparare dagli svizzeri a proposito della democrazia diretta». Nel commento si legge tra l’altro: «La conseguenza della Brexit non può essere votare di meno, bensì votare molto, molto di più».

Tempo per imparare

Ciò che vale anche per la votazione sulla Brexit (dagli effetti straordinari), è quasi un’ovvietà nelle comunità politiche dove si vota (più) spesso: anche una decisione popolare molto importante è sempre solo una decisione temporanea. Come nel calcio, dopo la partita è prima della partita. Un sì o un no sortito dalle urne non è questione di vita o di morte, come su un campo di battaglia.

La parte sconfitta ha il diritto di continuare a lottare per le sue convinzioni. Così come al presunto vincitore rimane il diritto di tornare sulla sua decisione. Per quanto l’allarmismo e l’agitazione degli scorsi giorni dopo la votazione sulla Brexit siano comprensibili, non per questo sono meno sbagliati. Prima che il titolo del Daily Mirror, «We are out», diventi realtà potrebbero passare anni. E saranno necessarie altre piccole e grandi votazioni. Anche in Svizzera ci vorrà molto tempo prima che il 50,3% di sì all’iniziativa «sull’immigrazione di massa» del febbraio 2014 possa essere applicata in un modo accettabile per la maggioranza. Il fattore tempo è importante. Il tempo lascia spazio al dialogo, alla riflessione e all’apprendimento e fornisce così le basi per le prossime decisioni.

Traduzione di Andrea Tognina

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