Libertà di stampa in pericolo: le esperienze vissute in prima persona dalla nostra redazione
Oggi è la Giornata mondiale della libertà di stampa. Un diritto fondamentale che in nessun Paese è davvero libero da rischi e complicanze. Di sicuro, non in Russia o in Messico. Ma anche in Svizzera, la libertà di stampa va costantemente difesa.
Molte delle persone che fanno oggi parte della redazione di SWI swissinfo.ch hanno lavorato anche in Paesi nei quali la pressione sulla libertà di stampa è particolarmente forte. Alcune di loro hanno provato sulla propria pelle cosa significhi praticare il giornalismo in nazioni in cui la stampa non è libera.
Fra le vicende che hanno vissuto in prima persona: essere presi in giro da un poliziotto per aver fatto ricorso alla legge sulla trasparenza, o ritrovarsi a gestire problemi non indifferenti in seguito a una sola domanda critica posta a Vladimir Putin. In questa serie vi presentiamo i loro racconti sulla situazione del giornalismo in Messico e in Cina, senza dimenticare la Svizzera: Marie Maurisse e François Pilet di Gotham City raccontano quali ostacoli ci si ritrovi a fronteggiare, laddove si lavori nella Confederazione nell’ambito del giornalismo investigativo finanziario. Gotham City collabora regolarmente con SWI swissinfo.ch.
Faccia a faccia con Putin. La storia della nostra giornalista Elena Servettaz, che da quando aveva 16 anni si ritrova a fare i conti con il regime russo:
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Diritto alla trasparenza. La battaglia vinta dalla nostra giornalista Amal Mekki contro il Ministero tunisino degli interni fu una prima nazionale:
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30 anni di censura e di attacchi al giornalismo
Patricia Islas, Messico
Quando ho iniziato a praticare questo mestiere, nel 1987, mi sono subito ritrovata di fronte alla censura messicana. “Non si critica la politica governativa nazionale”, era la regola esplicita nelle televisioni private. Poco il margine di manovra per il giornalismo investigativo: ci si limitava, per esempio, a mostrare esempi da altre nazioni e paragonarli alla situazione messicana. Poteva trattarsi di un’inchiesta su come poche famiglie della parte più meridionale dell’America del sud tenessero in mano il Paese, o sui crimini contro l’umanità nell’ex Jugoslavia dei primi anni Novanta. All’epoca, dovevo fare molta attenzione a cosa dicevo.
A quei tempi in Messico era un segreto di Pulcinella che la televisione fosse censurata. Allora passai a lavorare per un quotidiano che mi garantiva libertà. Tuttavia, anche in quella redazione non tutto era consentito.
Alla vigilia delle elezioni del 1994, ricevetti un incarico davvero particolare dal mio nuovo, e teoricamente libero, datore di lavoro. Avrei dovuto seguire dall’alba al tramonto la giornata di una certa personalità politica, che poi venne candidata nel partito che ha finito per governare per molti anni il Paese. Non mi fu concesso di pubblicare tanti articoli. In buona sostanza, mi era invece richiesto di inviare dei resoconti ai miei superiori. Non era così che immaginavo il giornalismo. Quel lavoro mi fece stare malissimo. Un paio di settimane dopo che avevo gettato la spugna su quel bizzarro incarico, ci fu un attentato contro quel candidato presidenziale.
Un omicidio che sconvolse la politica messicana e marcò l’inizio dello strapotere nel Paese della criminalità organizzata. Seguì una redistribuzione del potere nella politica e nel panorama mediatico: a praticare la censura non era più lo Stato, bensì i padroni dei media, in base ai loro interessi e preferenze politiche.
Sono passati 30 anni da quando ho lasciato il Messico. E oggi in quel Paese è semplicemente impossibile praticare un giornalismo libero dalle influenze. Lo Stato parallelo della criminalità organizzata provvede a giustiziare – impunito – i miei colleghi e colleghe, laddove non sia di suo gradimento ciò che scrivono. Solo nel 2023, in Messico sono stati assassinati quattro giornalisti. E nel 2024 ci si attende un aumento della violenza contro chi fa il nostro mestiere. Perché ci saranno le elezioni.
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Costretti a lasciare il Paese. La dura vita dei corrispondenti esteri
Redazione cinese
Con una popolazione di 1,4 miliardi, la Cina è la seconda superpotenza economica del pianeta. Ed è evidentemente un Paese molto interessante per le corrispondenze giornalistiche. Non si può certo dire lo stesso della Svizzera, dove il costo della vita è elevato e le crisi degne di copertura mediatica scarseggiano.
Sono una giornalista cinese e spesso rimango a bocca aperta nell’osservare quanto siano solerti le autorità elvetiche a rispondere a tutte le mie domande, e come si impegnino per consentire alle corrispondenti e ai corrispondenti esteri di farsi un’idea sulle questioni di attualità nel Paese. Chi lavora come corrispondente in Svizzera spesso riceve informazioni abbondanti e complete dalle autorità federali e cantonali, così come da istituzioni accademiche e della ricerca, dalle università e dalle multinazionali che hanno qui le loro sedi.
In Cina, invece, la situazione di giornalisti e giornaliste continua a peggiorare. In conseguenza delle attuali tensioni geopolitiche, in alcuni Paesi – fra i quali proprio la Cina – è infatti aumentata l’ostilità verso i giornalisti e le giornaliste straniere. Questi ultimi si ritrovano delegittimati, privati del permesso di soggiorno e talvolta sono pubblicamente additati come megafoni del nemico, minacce per la sicurezza nazionale o addirittura “propagatori di fake news”.
Per mettere i bastoni fra le ruote al giornalismo, la Cina punta sul “ricatto del visto”. Durante la crisi pandemica, il Paese ha reso più stringenti le limitazioni e sono aumentate le molestie e gli ostacoli imposti a giornalisti e giornaliste che provengano da altre nazioni e alle loro fonti.
Colleghi e colleghe affiliati a parecchi media stranieri, fra i quali la televisione pubblica svizzera di lingua francese RTS, a Shanghai sono stati posti brevemente in stato di arresto, nell’ambito della copertura delle manifestazioni di protesta contro la strategia “Zero Covid”. Un reporter della BBC è stato persino picchiato. Molti e molte corrispondenti sono stati costretti a lasciare il Paese e si sono ritrovati a svolgere il loro lavoro da una nazione confinante, per esempio da Singapore o dalla capitale taiwanese Taipei.
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Un nuovo modo per fare giornalismo sulla Cina, dall’esterno
Tutt’altra musica in Svizzera, dove a partire dagli anni SessantaCollegamento esterno i e le corrispondenti godono di buone condizioni lavorative. La loro indipendenza professionale viene generalmente rispettata, incluso il diritto di accedere alle informazioni, quello di fare domande scomode, così come la loro peculiare funzione di gettare sul Paese un occhio critico dall’esterno.
Anche in Svizzera l’informazione ha un prezzo
Marie Maurisse e François Pilet hanno fondato Gotham City, una rivista online specializzata nella criminalità economica, che collabora regolarmente con SWI swissinfo.ch
Aggressioni fisiche e con armi da fuoco, fortunatamente, non sono all’ordine del giorno nel giornalismo svizzero. D’altra parte, però, abbiamo a che fare con procedure giudiziarie. Dalla fondazione di Gotham City nel 2017, abbiamo dovuto affrontare una decina di denunce. Per lo più si è trattato di ricorsi in base all’articolo 28 del Codice civileCollegamento esterno, che tutela la “personalità”.
Non veniamo accusati di diffamazione. Per il nostro lavoro utilizziamo in maniera sistematica documenti pubblicati nell’ambito di processi, o ai quali abbiamo diritto di accedere in quanto giornalisti. Procurarsi le informazioni è spesso un lavoro estenuante.
Le persone che finiamo per menzionare nei nostri articoli, però, spesso non vogliono essere indicate con nome e cognome, ma rimanere anonime. Ritengono che rivelare la loro identità non sia necessario: non sarebbero abbastanza famose, argomentano, e perciò il loro nome non è di interesse pubblico. È proprio su questo punto che, a ogni denuncia, una Corte di giustizia si ritrova a dover prendere una decisione.
In questo momento, per esempio, un ex banchiere che è accusato di avere nascosto diversi milioni di franchi al fisco svizzero, si oppone alla pubblicazione di un nostro articolo. Noi riteniamo, invece, che si tratti di un lavoro di interesse pubblico. Una decisione della magistratura dovrebbe arrivare a stretto giro.
Per un media indipendente come Gotham City, questa battaglia ha un prezzo: migliaia di franchi all’anno in costi amministrativi di giustizia e per pagare le parcelle di avvocati e avvocate che ci difendono. Da quasi due anni, l’associazione senza scopo di lucro batfund.chCollegamento esterno raccoglie donazioni per aiutarci a coprire questi costi. Gotham City non è certo la sola, in Svizzera, a doversi battere conto questo potenziale bavaglio. Molte organizzazioni non governative, fra cui Amnesty International, hanno denunciato la situazione. Purtroppo, la maggioranza politica in ParlamentoCollegamento esterno non ha intenzione di impegnarsi per migliorarla.
A cura di Benjamin von Wyl e Samuel Jaberg
Traduzione di Serena Tinari. Revisione di Sara Ibrahim
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