Svizzera e altre democrazie di fronte alla disinformazione

Il Governo svizzero è preoccupato per le attività di influenza e disinformazione nella "zona grigia" fra guerra e pace. Come affronta il Paese il pericolo posto dalle forme di conflitto ibride, e cosa fanno invece Svezia, Francia e Regno Unito?
“To be Switzerland”, ovvero “essere la Svizzera” indica l’attitudine a non immischiarsi, siano questioni di peso o anche piccole. E molte persone, in Svizzera come altrove, sono in effetti convinte che il Paese si possa tener fuori da ogni controversia.
Il panorama globale è tuttavia cambiato, e questo riguarda anche la piccola, neutrale nazione al centro del continente Europa.

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Un rapporto del Consiglio federaleCollegamento esterno indica che a lato delle minacce convenzionali, sono oggi al centro dell’attenzione anche attività che si collocano “nella zona grigia fra conflitto armato e pace”.
Disinformazione e influenze riguarderebbero “sempre più spesso, e direttamente, la Svizzera”. Elementi che puntano all’influenza potrebbero pertanto concentrarsi sul settore della politica estera e sul Paese in quanto sede di organizzazioni internazionali.
Votazioni popolari nel mirino della disinformazione?
Oppure, potrebbero decidere di colpire la democrazia diretta. Si legge nel rapporto: “Società aperte e democratiche potrebbero essere obiettivi interessanti, per giungere a influenzare dibattiti che si svolgano pubblicamente, e processi democratici”.
In Svizzera, in particolare, “il sistema di democrazia diretta, nell’ambito del quale la popolazione con regolarità prende decisioni politiche, potrebbe offrire il fianco con le sue linee di frattura societarie e politiche”.

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Le preoccupazioni di fronte a una potenziale guerra dell’informazione hanno raggiunto anche il Parlamento elvetico, che presto sarà chiamato a pronunciarsi su una serie di mozioni sul tema. Per esempio attorno alla creazione di un servizio di coordinamentoCollegamento esterno per lottare contro la disinformazione, e una possibile richiesta della Svizzera di ottenere lo statuto di osservatore nel Rapid Response Mechanism del G7Collegamento esterno (G7 RRM). Il Consiglio federale si è espresso perché entrambe le proposte vengano approvate.
Il G7 RRM è un’iniziativa che punta ad affrontare la questione in modalità coordinata e internazionale. Si tratta di un organo di coordinamento dei Paesi che fanno parte del G7, sotto la direzione del Canada, per “rispondere alle complesse e sempre nuove minacce internazionali per la democrazia”, scrive l’ufficio stampa in risposta a una richiesta di SWI. No comment, invece, sull’ipotetica partecipazione della Svizzera.
Il rapporto del Consiglio federale sostiene che la disinformazione avrebbe come obiettivo rendere la popolazione “insicura, ansiosa, esaurita oppure divisa”.
E non sarebbe indispensabile arrivare a convincerla della veridicità di un messaggio: spesso informazioni notoriamente non veritiere finiscono per essere credute, purché sostenute da dichiarazioni che si ripetano sempre uguali.
Cina e Russia al centro delle preoccupazioni
Secondo il Governo federale, “al centro delle preoccupazioni per la sicurezza svizzera” ci sarebbero oggi Russia e Cina.
Resta il fatto che per una democrazia liberale come la nostra, non è semplice trovare un modo per rispondere a mezzi bellici ibridi.
Perché i governi non dovrebbero decidere cosa sia vero e cosa no. “Se questo avviene, significa fare politica”, ha detto nel 2024 durante un’audizione al Parlamento britannico l’esperto di spionaggio e sicurezza nazionale Rory Cormac.
Nel suo intervento, Cormac ha sottolineato inoltre che i poteri stranieri non puntano necessariamente solo su canali diretti, ma anche su reti che ad un primo sguardo possono sembrare organizzazioni e individualità al di sopra di ogni sospetto.
Il ruolo della politica nazionale
Intervistato da SWI swissinfo.ch, Cormac ci tiene a precisare che la disinformazione “mette a rischio la fiducia nelle istituzioni, nei media e nella democrazia” e che si tratta di un fenomeno “nocivo e onnipresente”. Docente all’Università di Nottingham, Cormac sottolinea che il successo di una strategia di influenza straniera dipende anche dalle forze politiche nazionali.
La disinformazione, sostiene Cormac, fiorisce in un’atmosfera permeata da “un dibattito politico tossico, nel quale i fatti stentino a trovare spazio”. Un fenomeno che sarebbe determinato dalle scelte degli attori della politica interna.
Quanto alle elezioni che si sono svolte nel 2024 nel Regno Unito, secondo Cormac rispetto a quelle del 2019 sono state piuttosto positive. “Credo che tutte le persone candidate nel 2024 avessero in generale meno la tendenza a giocare con la verità, rispetto a quelle del 2019, soprattutto in virtù dell’assenza di [Boris] Johnson”. Nonostante questo, il fronte conservatore ha riproposto nel 2024 un “trucco del 2019”: modificare il suo profilo TwitterCollegamento esterno, per “farlo sembrare un profilo indipendente di verifica dei fatti. Un’azione assolutamente deprecabile”, dice Cormac.

L’esperto britannico preferisce non pronunciarsi sulle minacce che riguardano specificamente la Svizzera. Quanto al Regno Unito, che come la Confederazione non fa parte dell’Unione europea, Cormac sostiene l’importanza di “una stretta collaborazione con i partner UE”.
Un esempio interessante cui nazioni come il Regno Unito potrebbero ispirarsi, dice, è quello dei Paesi baltici e scandinavi: “Come il caso della Finlandia, caratterizzata da un solido panorama mediatico nel quale la popolazione si fida del servizio pubblico radio-televisivo”. La solidità del panorama mediatico “contribuisce in maniera netta alla sicurezza”, e alla resilienza democratica.
Cormac dice di apprezzare, nel complesso, il gruppo G7 RRM, di cui il Regno Unito fa parte in quanto membro del G7, come coalizione contro la disinformazione. Uno strumento, dice, in grado di “laddove necessario, velocemente smontare narrative ostili o false”. Alla luce dei “recenti comportamenti del Governo statunitense”, Cormac si aspetta una certa agitazione e una reazione del G7 RRM. “Ma è difficile reagire alla disinformazione, laddove sia un Paese membro del G7 a propagarla”.
“Abbiamo perso il nostro alleato più importante”
In Svizzera, il Governo federale spera in una collaborazione costruttiva con il nuovo esecutivo americano. Ma anche nel Paese ci sono voci che chiedono di rivalutare il livello di minaccia di fronte alla nuova situazione politica oltreoceano. “Abbiamo perso il nostro alleato più importante. Siamo rimasti soli”, dice a SWI Olga Baranova. Saremmo di fronte “a un cambiamento epocale”, e anche la Svizzera dovrebbe ora scendere in campo in difesa della democrazia liberale.
Baranova dirige il think tank progressista CH++. E ritiene urgente che la Svizzera si preoccupi della propria sicurezza intesa in senso lato: CH++ è favorevole a una “digitalizzazione responsabile” e perché “venga ampliato il concetto di sicurezza”.
Alla fine di febbraio, di fronte a una nutrita platea, Baranova ha sollevato il velo su un tema che di primo acchito sembrerebbe appartenere al passato, più che al futuro: la richiesta di un dibattito su una Difesa spirituale 2.0.
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Una “Difesa spirituale 2.0” per la Svizzera?
“La cosiddetta Difesa spiritualeCollegamento esterno non era un programma per tempi di pace”, dice Baranova, “bensì per tempi di guerra come quelli che viviamo adesso”. La Difesa spirituale fu un leitmotiv della politica elvetica fra gli anni Trenta e Sessanta del vecchio millennio, che ha lasciato ricordi contrastanti. Il suo obiettivo era rafforzare la coesione nazionale, dato che il periodo storico fra le due guerre mondiali rischiava di far allontanare fra loro le diverse regioni linguistiche svizzere.
In una tale situazione, si cercava allora di rafforzare la narrazione di una nazione unita. “Quando fu in principio definita la Difesa spirituale, si sottolineava l’importanza delle caratteristiche fondanti del Paese e quindi l’importanza di conservarle, e di impegnarsi in questa missione. Ma al tempo stesso, non veniva definito quali fossero le caratteristiche fondanti”, spiega Baranova. E questo, dice, sarebbe stato un vero e proprio “colpo di genio”.
Negli anni Trenta, la Difesa spirituale portò in Svizzera il servizio pubblico radiotelevisivo e la fondazione culturale Pro Helvetia, ricorda Baranova. Tuttavia, è rimasta nella memoria collettiva di molte persone piuttosto in virtù della sorveglianza della dissidenza durante la Guerra fredda, nell’ambito del cosiddetto “scandalo delle schedature”.
La direttrice di CH++ spera che una nuova Difesa spirituale che arrivi “dal basso” e quindi dalla società civile, sarebbe in grado di prevenire tali eccessi.
Baranova dice che andrebbe difesa “la società dell’informazione” e che bisognerebbe lavorare a una sorta di “resilienza democratica”, con la creazione di rituali che connettano il Paese. Quanto alle istituzioni, a loro il compito di investire nella difesa, puntando su quella cibernetica. Sopra ogni cosa, Baranova sostiene la necessità di un dibattito societario su una narrazione condivisa della Svizzera, narrazione che venga apertamente discussa e modellata.

Svezia: narrazione nazionale e strategia olistica
“Nazione costruita sulla volontà”, “diversità”, “postura”, “democrazia difensiva”: ad ascoltare Baranova, si inciampa di continuo su parole grosse. Ma è davvero possibile che narrazioni e identità condivise nel Ventunesimo secolo possano diventare parte di un concetto di sicurezza?
A dare retta a Leon Erlenhorst, si direbbe di sì. Erlenhorst è politologo e co-autore del libro “L’attacco di Putin alla Germania: disinformazione, propaganda, attacchi informatici”. L’opera offre anche un giro d’orizzonte sulle diverse iniziative intraprese da Paesi europei di fronte alle mutate condizioni di pericolo. Intervistato da SWI, Erlenhorst presenta il caso svedese come esempio positivo, perché: “applica una strategia olistica degna di nota, di fronte al pericolo posto dalla disinformazione”. Ne farebbero parte, nel quadro di una strategia per “aumentare la resilienza, anche la narrazione che postula l’essere una democrazia forte”.
Certo non basta concentrarsi solo sulla narrazione. La Svezia investe anche sul monitoraggio e su offerte di formazione attorno all’intelligenza artificiale e per rafforzare la competenza mediatica, nonché su eventuali contromisure. “Ad esempio, una persona che si trova nella stanza dei bottoni mi ha detto di ritenere plausibile un intervento con mezzi militari per spegnere un server coinvolto nella diffusione di disinformazione”, racconta Erlenhorst.
Viginum in Francia
In Francia è attiva l’organizzazione Viginum. Non ha facoltà di mettere in campo aggressive contromisure. “Il suo compito, dal 2021, è individuare attività di manipolazione. Il Paese, comunque, non si tira indietro e interviene con il pugno di ferro laddove scopra campagne di disinformazione”, dice Erlenhorst. Viginum non lavora come una cellula dei servizi segreti. Per l’analisi e la documentazione, sfrutta solo “fonti aperte”, per dati che utilizza in forma anonimizzata. Ma qual è il punto a partire dal quale iniziative di questo tipo mettono a rischio la libertà di cittadini e cittadine?
“Accidenti, questa è una domanda proprio svizzera. Ma è una domanda importante”, sbotta Leon Erlenhorst. Si tratta, dice, di un terreno delicato e di una questione di costante valutazione di pro e contro. “Credo che si tratta di un minimo prezzo da pagare, laddove vengano utilizzati dati anonimizzati, disponibili nel pubblico dominio, con lo scopo di impedire che le basi dell’informazione che raggiunge la società siano manipolate da attori stranieri”.
Le campagne puntano a punti di frattura nazionali
Il politologo ritiene che al centro delle strategie contro l’influenza dall’estero, sia determinante il cosiddetto Pre-Bunking.
Perché è possibile correggere informazioni scorrette, ma piuttosto che una reazione, sarebbe più efficace un intervento proattivo e a monte. Cosa significa? Erlenhorst fornisce un esempio semplice e concreto dal panorama internazionale: “Se fin dal principio si mettono a disposizione della cittadinanza informazioni complete su efficacia e rischi di una vaccinazione, laddove in seguito ci siano persone che diffondano informazioni dubbie, la maggioranza della popolazione non ci crederà, persino quando non ha mai sentito parlare di quell’argomento”.

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Tra fake news e fatti: la responsabilità dei media internazionali
Erlenhorst ritiene importante che la lotta alla disinformazione sia oggetto di cooperazione internazionale. Anche perché in taluni casi, la risposta non può che essere globale. E menziona l’esempio delle iniziative dell’Unione europea per la regolamentazione dei social media.
Detto questo, il politologo considera importante che ogni Paese rifletta su come contrastare il rischio di influenza estera. Anche perché, conclude: “Le campagne di disinformazione si rivolgono sempre a specifici punti di frattura propri di un singolo Paese”.
Una riflessione che in Svizzera è appena iniziata.

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La nostra newletter sulla democrazia
Articolo a cura di David Eugster
Traduzione di Serena Tinari

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