Le foreste di abeti rossi potrebbero scomparire dal paesaggio svizzero nei prossimi decenni.
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Per il bosco svizzero le temperature stanno aumentando troppo in fretta, temono gli esperti. Degli ingegneri forestali della Confederazione preparano il bosco per il 2080. Prevedono che entro quella data la temperatura media in Svizzera sarà aumentata di 4 gradi.
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Lavoro come redattore e corrispondente da Palazzo federale. Copro l’attualità politica elvetica per svizzere e svizzeri all’estero e gestisco il nostro talk show politico “Let’s Talk”.
Ho iniziato la mia carriera giornalistica nei primi anni Novanta e ho lavorato in molti ambiti del settore, svolto posizioni manageriali e mi sono occupato di varie tematiche. Lavoro presso SWI swissinfo.ch dal 2017.
I segnali che il mutamento climatico sta avanzando si stanno moltiplicando. Basta guardare il bosco. Nella regione di Zurigo la primavera 2017 è stata troppo calda e il terreno troppo secco per gli abeti rossi, che hanno radici che si sviluppano in orizzontale.
Della situazione approfitta il bostrico tipografo, che scava le sue gallerie sotto la corteccia. Normalmente gli abeti rossi riescono a difendersi, annegando i parassiti nella resina. Ma per produrre resina serve acqua e quest’anno le piogge sono state insufficienti. Per questo i boschi zurighesi hanno prodotto una maggiore quantità di legname bostricato. I guardiaboschi chiamano così gli abeti rossi che devono abbattere per frenare la diffusione del bostrico.
Se sale la temperatura, il bostrico non solo ha un ricco buffet a disposizione, ma si riproduce anche meglio, esponenzialmente meglio. Invece di una o due generazioni, improvvisamente in un’estate ce ne sono tre. Questo vuol dire per esempio che se in un’estate fredda ci sono 8000 bostrici e in una normale 160’000, in un’estate calda ce ne sono 3,2 milioni.
Troppo caldo per gli abeti rossi
«Gli alberi che piantiamo oggi cresceranno in un clima completamente diverso.»
L’abete rosso è ancora dominante nei boschi a bassa quota e a mezza montagna, ma le cose sono destinate a cambiare. In pianura a lungo termine l’abete rosso potrà sopravvivere probabilmente solo in pochi luoghi. È quanto ritengono alcuni esperti svizzeri di selvicoltura che si domandano cosa accadrà in seguito e provano a pianificare il bosco del futuro, quando la temperatura media svizzera sarà salita di 4 gradi.
Degno di nota è il fatto che non sono ecologisti radicali o militanti per il clima a occuparsi di questo scenario catastrofico. Sono scienziati ed esperti di selvicoltura al servizio della Confederazione. Per esempio Christian Küchli, che lavora presso l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM). Per dieci anni si è occupato insieme ai suoi colleghi del progetto di ricerca «bosco e cambiamento climatico», a cui ha partecipato anche l’ Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio.
«Gli alberi che piantiamo oggi cresceranno in un clima completamente diverso», osserva Küchli, che fa parte del comitato direttivo del programma di ricerca. Gli scienziati, con acribia elvetica, hanno analizzato i boschi svizzeri in tutti i loro aspetti, nell’ambito di 40 diversi progetti di ricerca: pendenza, microclima, qualità del terreno, tutto ha un effetto quando le temperature salgono. L’UFAM calcola che entro il 2080 il surriscaldamento del clima in Svizzera andrà dai 3,1 ai 4,3 gradi.
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Di fronte a questa constatazione ci si è posti domande come questa: che specie arboree bisogna piantare se abeti rossi e faggi non riescono più a sopportare il calore? E se le zone di vegetazione si spostano di 700 metri verso l’alto, cosa cresce più in basso?
Mentre la Germania ha cominciato ha riforestare chilometri e chilometri di bosco con specie meridionali provenienti dalla Croazia, la Svizzera cerca di affrontare il fattore di stress climatico con precisione quasi chirurgica. «La nostra priorità non è l’importazione di nuove specie arboree. Cerchiamo piuttosto in una prima fase di promuovere la vegetazione locale», spiega Küchli.
La particolarità di questa strategia è che i ricercatori non cercano semplicemente singole specie più robuste, ma si orientano piuttosto alle cosiddette comunità vegetali. Studiano la loro evoluzione sotto l’effetto del mutamento climatico. La scelta si basa sulla convinzione che boschi naturali e con un alto grado di biodiversità resistano meglio a inverni ricchi di precipitazioni, estati calde e alte temperature.
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È utile sapere che il bosco in Svizzera non è il prodotto di una natura abbandonata a sé stessa. L’uomo interviene da secoli per dare al bosco la forma che più gli serve. In un paese densamente popolato come la Svizzera il valore del bosco emerge oggi sotto vari punti di vista: filtra l’acqua potabile, protegge da slavine e frane, attutisce i rumori e il vento, fornisce legna ed è utile per la salute pubblica. Uno studio della ConfederazioneCollegamento esterno stima che già solo il valore ricreativo del bosco raggiunga i 4 miliardi di franchi l’anno.
«Il bosco è da 7000 anni il risultato di un’attività culturale», ricorda Küchli. L’albero più importante per la selvicoltura svizzera e il più caratteristico del panorama forestale, l’abete rosso, appartiene a una specie autoctona. Ma la sua così ampia diffusione è dovuta all’uomo. Nel XIX secolo si ritenne che i boschi di quercia, all’epoca molto estesi, erano stati troppo sfruttati e si trovavano in cattive condizioni. Allora, circa 100 anni fa, si piantarono abeti rossi, che crescevano bene sui terreni magri.
«Il bosco è da 7000 anni il risultato di un’attività culturale.»
Del resto anche i boschi di quercia erano frutto di un’azione umana: 1300 anni fa, nell’ambito della colonizzazione alemannica, si fece molto per favorirne la diffusione. Gli uomini apprezzavano il legno di quercia, resistente alle intemperie, e le ghiande fornivano un ottimo cibo per i maiali. ,Sulle ghiande crescono i migliori prosciutti», dicevano i contadini. Per questo portavano i loro maiali a pascolare nei boschi.
Osservazioni nella Francia meridionale
Ora in Svizzera si annuncia un ritorno della quercia, che resiste bene a calore, intemperie e siccità. «Il bosco a bassa e media quota sarà dominato dalle querce», profetizza Küchli. «Non sappiamo tuttavia in che misura le querce nostrane resisteranno fino al 2100. Per questo osserviamo regioni che oggi hanno il clima che ci aspettiamo sarà quello del futuro.» Di recente Küchli si è recato in Francia per studiare i locali boschi di leccio. Il viaggio di studio lo ha condotto sulle pendici del Monte Ventoso, nella Francia meridionale, 300 chilometri più a sud della Svizzera.
Mentre il riscaldamento della terra dall’inizio della rivoluzione industriale ha raggiunto gli 0,8 gradi Celsius, la temperatura in Svizzera, a causa della posizione continentale, è salito di 1,7 gradi. Naturalmente è chiaro che non esiste un clima svizzero. Per le diverse aree e altitudini si calcolano effetti molto diversi. Diverse sono perciò anche le raccomandazioni dei ricercatori.
Non esiste neppure una dottrina unitaria che possa essere applicata in tutto il paese, perché i boschi svizzeri sono suddivisi in innumerevoli parcelle e hanno proprietari di vario genere: privati, comuni, cantoni, consorzi. La Confederazione non impartisce ordini – lo impedisce la struttura federalista del paese – fornisce solo conoscenze, in modo che i responsabili forestali in loco possano ringiovanire i loro boschi tenendo conto dell’evoluzione futura.
In Svizzera si prevede un ritorno della quercia, che resiste bene a calore, intemperie e siccità.
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Tuttavia la grande attenzione che la Svizzera dedica alle foreste in questa epoca piena di sfide non fornisce alcuna garanzia. Alcune piante e animali trovano la morte in un clima che non è più lo stesso di un tempo. Altri trovano invece condizioni ideali per diffondersi. Molte specie animali già approfittano di un clima più mite.
Il capriolo per esempio si riproduce bene e bruca i germogli degli abeti bianchi e delle querce. «Si tratta proprio delle specie arboree più importanti in vista del cambiamento climatico», dice Küchli. Lupo e lince potranno contribuire a regolare la popolazione di caprioli? O la risposta giusta è l’abete di Douglas, una gigantesca conifera che resiste bene alla siccità e quasi non conosce parassiti? Ma che non è autoctona?
La natura reagisce sempre, lentamente e a modo suo
Le certezze sono poche quando tutto sta cambiando. «Tempeste, siccità e calamità biotiche possono condurre a pericolosi cortocircuiti», avverte l’ingegnere forestale Küchli. L’uragano Lothar nel 1999 ha abbattuto milioni di alberi e molti alberi rimasti in piedi ma indeboliti sono diventati un banchetto per il bostrico.
«Lothar è stato un duro colpo per i proprietari di boschi e per la selvicoltura», dice Küchli. «Per la natura l’uragano non è stato però un problema.» La natura reagisce sempre, lentamente e a modo suo. «Il cambiamento climatico rischia però di essere così rapido da mettere in pericolo ciò che il bosco svizzero fornisce alla Svizzera, se non lo aiutiamo ad adattarsi.»
Secondo gli esperti, anche il pino rischia di soccombere al rapido aumento delle temperature.
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Traduzione dal tedesco
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Le grandi banche, incluse UBS e Credit Suisse, devono limitare i loro investimenti nelle produzioni di beni agricoli che implicano la distruzione delle foreste, auspicano alcune ong. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, gli istituti finanziari non stanno infatti facendo abbastanza per contrastare la deforestazione, tra i temi discussi alla COP21.
La deforestazione dovrebbe essere inclusa nell’accordo globale in discussione alla Conferenza internazionale sul clima di Parigi (COP21). Le foreste sono infatti in grado di assorbire in modo naturale il CO2 emesso nell’atmosfera. Secondo il negoziatore della delegazione svizzera Keith Anderson, esperto di politica forestale internazionale, la COP21 sarà «una pietra miliare per la questione della riduzione delle emissioni nel settore forestale».
Tuttavia, fino a quando le istituzioni finanziarie non valuteranno attentamente le loro relazioni con i clienti che promuovono le colture da reddito (olio di palma, soia, pascoli, …) a scapito delle foreste, le azioni per frenare la deforestazione rischiano di essere sterili.
Secondo le voci critiche, gli schemi di certificazione esistenti e le iniziative per la sostenibilità promosse dall’industria, e sottoscritte da banche quali UBS e Credit Suisse, non sono sufficientemente severi. Scott Poynton, fondatore di Forest Trust, un’ong con sede a Nyon (canton Vaud), sostiene che le banche e i servizi finanziari «non stanno facendo la loro parte».
«Nel caso della Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (RSPO), [un’organizzazione che riunisce le parti interessate], si può deforestare e al contempo ottenere la certificazione. È addirittura possibile procedere al lavoro forzato», afferma Scott Poynton, il cui lavoro è di informare le multinazionali e le istituzioni finanziarie sulle filiere che potrebbero svolgere un ruolo nella deforestazione, aiutandole a formulare delle politiche efficaci.
Banche svizzere accusate di favorire il disboscamento
Questi sistemi, che coinvolgono numerosi attori, si basano sul consenso, prosegue il fondatore di Forest Trust. «Alla fine, a essere incluso negli standard è il minimo denominatore comune. Sul terreno non cambia nulla».
All’inizio di quest’anno, l’ong danese Bank Track ha accusato Credit Suisse di aver concesso un prestito di 50 milioni di franchi a un gruppo indonesiano, la cui società di disboscamento sussidiaria April era stata definita da Greenpeace «la più grande minaccia per la foresta pluviale dell’Indonesia».
Nel 2012, il Fondo Bruno Manser, con sede in Svizzera, ha dal canto suo affermato che UBS ha contribuito a riciclare il denaro di un politico malese, proveniente dal disboscamento illegale nello stato di Sabah, nel Borneo.
In merito alle accuse di Bank Track, Credit Suisse scrive a swissinfo.ch di «partecipare regolarmente a un dialogo con attori esterni quali ong» e di «prendere sul serio le indicazioni relative a clienti che non sono conformi alle nostre politiche e linee guida».
Per ciò che riguarda la Malesia, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha aperto un procedimento penale nei confronti di UBS. Le indagini sono in corso e non può essere fornita alcuna informazione supplementare, indica l’MPC a swissinfo.ch.
Migliorare i controlli
Ethos, la Fondazione svizzera per lo sviluppo sostenibile, auspica dei miglioramenti nel controllo dei crediti, in particolare nei casi in cui il denaro viene concesso a determinate condizioni.
«Quando il Credit Suisse afferma che concede crediti a una condizione, vorremmo saperne di più su questa condizione», dice il direttore di Ethos Vincent Kaufmann, sottolineando che nel quadro della RSPO il controllo è limitato.
Le linee guida di UBS sono più «precise» di quelle di Credit Suisse, puntualizza Vincent Kaufmann, specificando che la banca non accetta di fare affari con aziende attive in foreste protette e chiede ai suoi clienti di ottenere una completa certificazione entro il 2020.
Sebbene le banche locali si facciano spesso avanti quando i grandi istituti internazionali rifiutano di concedere un prestito, questi creditori più piccoli non possono agire da soli, osserva Scott Poynton. «Hanno legami con il settore bancario internazionale».
Banche insufficienti
Consapevoli del ruolo svolto dalle banche e delle ripercussioni sul clima, diverse agenzie dell’ONU (UNEP, FAO, UNDP) hanno commissionato uno studio per valutare le politiche di banche e investitori nei confronti dei cosiddetti beni agricoli quali olio di palma, soia e manzo. Lo studio ha analizzato 30 banche, incluse UBS e Credit Suisse, indica Anders Nordheim dell’Iniziativa Finanziaria del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP FI), con sede a Ginevra.
Le valutazioni si basano su diversi aspetti: le informazioni pubbliche e le dichiarazioni ufficiali degli istituti, l’efficacia delle loro politiche nel contesto dei requisiti ambientali e sociali e il modo in cui queste politiche sono adottate e controllate. In media, le banche hanno ottenuto 58 punti su 100 (quando la “sufficienza” era di 67 punti).
I risultati individuali non sono stati resi noti. Il rapporto si limita a indicare che le valutazioni migliori sono state ottenute dalle banche di sviluppo internazionali, quali la Banca di sviluppo africana e la Società finanziaria internazionale, e dalle banche commerciali Standard Chartered e Sumitomo Mitsui Trust. A loro è stato riconosciuto il merito di avere «investito risorse per capire, e prendere in considerazione, i rischi legati ai beni agricoli».
«Banche, trader e consulenti d’investimento hanno un impatto indiretto considerevole quando concedono prestiti o investono in aziende coinvolte in produzioni non sostenibili oppure attive nel commercio di beni agricoli», indica il rapporto.
Tener conto dei rischi ambientali e sociali
Secondo il direttore esecutivo dell’UNEP, Achim Steiner, gli istituti devono impegnarsi assieme ai clienti, ridurre i crediti concessi alle pratiche più dannose e incorporare i rischi derivanti dal degrado ambientale nella loro analisi finanziaria.
Per aiutare gli istituti finanziari a valutare le loro prassi, a sviluppare politiche appropriate e a raffrontarsi con altri istituti, l’Iniziativa Finanziaria dell’UNEP ha sviluppato uno speciale strumento online. Le banche, insiste Anders Nordheim, devono integrare questa comprensione dei rischi nei loro diversi servizi e transazioni.
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
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