In Italia la RAI resiste alla concorrenza delle emittenti private
Anche in Italia si è riacceso il dibattito sul canone, che finanzia circa il 70% dei programmi della RAI. Questa tassa, poco amata dalla popolazione, ha permesso negli ultimi decenni al servizio pubblico radiotelevisivo di sussistere, con una buona quota di mercato, di fronte all’offensiva lanciata dalle emittenti private.
È bastata la mera ventata da parte del quotidiano la Repubblica circa l’intenzione del Segretario del Partito Democratico italiano Matteo Renzi di portare alla prossima direzione del Partito la proposta di abolire il canone RAI per sollevare un polverone. E dire che con l’entrata in vigore del “canone in bolletta” nel luglio 2016 sembrava essersi finalmente risolta l’annosa questione del pagamento del “canone RAI”.
La soluzione ha infatti ricevuto il plauso per la riduzione del costo del finanziamento da più di 100 euro agli attuali 90 euro annuali e per aver incrementato dello 0.8% il gettito che ora raggiunge quota 1.810 milioni di euro. Il tutto grazie ad un meccanismo di addebito relativamente semplice: il canone viene addebitato a tutti coloro che hanno un’utenza elettrica attiva, dando per scontato l’esistenza di una televisione e della fruizione dei programmi RAI.
Si vota sul canone in Svizzera
In Svizzera il prossimo 4 marzo il popolo è chiamato a pronunciarsi su un’iniziativa che chiede di abolire il canone radiotelevisivo. I proventi sono attualmente destinati alle emittenti radiotelevisive che adempiono il mandato costituzionale di servizio pubblico, tra cui fornire informazioni che presentano gli avvenimenti in modo corretto, riflettono la pluralità delle opinioni e contribuiscono allo sviluppo culturale della popolazione.
Secondo i promotori dell’iniziativa, il settore radiotelevisivo dovrebbe essere lasciato in futuro alle forze del mercato e gli utenti dovrebbero pagare soltanto per i programmi che consumano effettivamente, invece di dover versare un contributo fisso.
Per il governo e il parlamento, il canone è indispensabile per fornire su tutto il territorio un’offerta radiotelevisiva di qualità, che rispecchia la pluralità delle opinioni e contribuisce alla coesione di un Paese suddiviso in quattro regioni linguistiche e culturali.
Obbiettivo finale? Col canone i cittadini finanziano il 70% dell’attività del gruppo della Radiotelevisione Italiana (il restante viene ottenuto dai guadagni pubblicitari), titolare della concessione per il servizio pubblico televisivo nazionale.
RAI in prima posizione
Che tipo di servizio viene finanziato dai cittadini italiani tramite il canone? La ratio del servizio televisivo pubblico è quello di offrire una forma di intrattenimento il più possibile slegata da logiche commerciali. Il 26.6% del palinsesto dei tre canali principali della RAI è dedicato infatti a programmi di informazione e approfondimento generale, 12.4% a programmi e rubriche di promozione culturale e rispettivamente circa il 10% e il 16% a film e fiction extraeuropei e a generico intrattenimento.
Degna di interesse è pure la presenza di Telegiornali regionali seguiti da 2,4 milioni di ascoltatori (senza contare i servizi in tedesco, francese, sloveno e ladino nelle regioni a minoranza linguistica) un unicum nel restante panorama televisivo italiano.
Il successo è di casa, dato che la RAI ottiene solitamente la maggioranza dello share al 36%. A seguire, nel panorama televisivo italiano, c’è la società privata Mediaset con uno share che si stanzia solitamente attorno al 31%, le cui due azioniste di maggioranza sono la holding di proprietà della famiglia Berlusconi (Finanziaria d’Investimento S.p.A.) al 41% e di Vivendi SA (società di comunicazioni francese) al 25%.
La programmazione delle tre reti principali della Mediaset è costituita generalmente al 34% da Fiction al 20% da programmi di informazione, al 17% da film e al 15% da intrattenimento del tipo talk show e reality. I programmi culturali invece si fermano attorno al 1.5.
Per quanto riguarda il settore radiofonico, la RAI ha una presenza come operatore principale con una quota di radio corrispondente a circa un quarto del settore. Le società private sono dunque la maggioranza: la quota di mercato del 13% è della Finanziaria d’Investimento S.p.A. mentre quella del Gruppo GEDI si attesta attorno al 10%. Gli outsider non appartenenti a conglomerati multimediali (RTL 102 e Radio Dimensione Suono) si dividono quote del 9% e del 7%.
Sostegno pubblico alla stampa
Nel campo delle testate giornalistiche, il panorama cambia sensibilmente: siamo in presenza infatti di un panorama dominato prevalentemente da grandi gruppi editoriali, quotati sui mercati. Caso emblematico la società per azioni GEDI Gruppo Editoriale, frutto della fusione tra il gruppo storico l’Espresso (proprietaria tra gli altri, de la Repubblica, e l’Espresso) con Itedi che edita (tra gli altri) La Stampa.
Le società quotate sono detenute poi a maggioranza da gruppi imprenditoriali rilevanti (43% della GEDI dalla holding CIR S.p.A. a sua volta detenuta dalla famiglia di imprenditori De Benedetti). Panorama simile per il principale quotidiano italiano il Corriere della Sera, detenuta dalla RCS Media Group S.p.A. della quale detiene la maggioranza delle azioni (59%) Urbano Cairo, imprenditore piemontese.
Risulta un’eccezione il Fatto Quotidiano detenuto dall’Editoriale Il Fatto S.p.A, i cui azionisti hanno partecipazioni relativamente esigue, di modo da evitare l’influenza di un socio di maggioranza preponderante. Il sostegno pubblico tuttavia è presente indirettamente, dato che circa 10 milioni all’anno vengono stanziati da parte dello Stato italiano per i quotidiani che abbiano presenza sia cartacea che digitale.
La recente riforma del 2017 ha definito circa sette categorie di imprese editoriali che possono chiedere il sostegno pubblico, tra le quali enti senza fini di lucro e associazioni dei consumatori che editano periodici in materie loro attinenti.
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