“La risata collettiva del pubblico in Piazza Grande è qualcosa di meraviglioso”
Il 1° agosto comincia il Locarno Festival. Per l’ultima volta la più importante rassegna cinematografica della Svizzera sarà sotto la direzione artistica di Carlo Chatrian. swissinfo.ch lo ho incontrato per parlare di passato, presente e futuro.
Il Festival di quest’anno si apre in Piazza Grande con ‘Les Beaux Ésprits’ di Vianney Lebasque e si chiude con ‘I Feel Good’ di Benoît Delépine. Questi titoli sono stati scelti perché rispecchiano il suo stato d’animo visto che si tratta dell’ultimo Locarno FestivalCollegamento esterno sotto la sua direzione artistica prima di andare a Berlino?
(Ride). Non c’è dietrologia. Volevamo semplicemente aprire e chiudere il Festival in Piazza Grande con delle commedie. Si tratta di due commedie che ci sono piaciute molto anche se molto diverse l’una dall’altra. Riferendomi al titolo del film della serata conclusiva posso dire scherzosamente: “I feel good now, tomorrow and the day after tomorrow.” Cioè mi sento molto bene a Locarno, come spero domani e dopodomani.
“Un festival come il nostro è un festival delle scoperte e dell’avanguardia”
Il programma sulla Piazza Grande quest’anno è più leggero. Si voleva evitare di mettere il pubblico sotto pressione con dei temi pesanti?
Nel 2017 abbiamo avuto un’edizione che non definirei pesante, ma che era molto importante visto la ricorrenza del 70esimo. Perciò effettivamente quest’annoCollegamento esterno volevamo alleggerire un po’. Per questo abbiamo proposto ad esempio la Retrospettiva di Leo McCarey. Le commedie d’altronde sono un genere che crea un effetto molto bello. La risata collettiva del pubblico di Piazza Grande è qualcosa di meraviglioso.
Ridere come una terapia collettiva?
Sì, qualcosa del genere, ma non si tratta di un divertimento per dimenticare il mondo. Pensiamo alla satira ‘BlacKkKlansman’ di Spike Lee che ci confronta con temi importanti come il razzismo ma con un tono più leggero.
Vede il film di Spike Lee come un messaggio politico?
Il film prende spunto da una storia vera. Un afroamericano che viene assunto dall’FBI e riesce a passare per un bianco fino ad ottenere un certificato di appartenenza al Ku Klux Klan. Questo film è un simbolo per leggere la società americana che è ancora divisa fra bianchi e neri. Abbiamo deciso di proiettarlo in Piazza anche per commemorare i 70 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Lo vedo come un messaggio di civiltà piuttosto che un messaggio politico.
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L’attenzione pubblica va sempre al Concorso internazionale. È più difficile programmare la Piazza oppure questo concorso?
Sono due sezioni che richiedono attenzioni diverse. Per la Piazza Grande si tratta di trovare i film, ma anche gli ospiti che li accompagnano. Le proiezioni in piazza sono degli eventi. Attraverso le undici serate si fa un percorso, un po’ come il film colombiano ‘Pájaros de verano’ (Birds of Passage) che quest’anno ci porta in un continente poco frequentato in Piazza. Per il Concorso la difficoltà è trovare il giusto bilanciamento fra registi giovani e quelli che hanno già una certa storia. Questo non è sempre semplice.
Per il concorso fa già parlare parecchio il film ‘La Flor’ di Mariano Llinás che dura quasi 14 ore. È una provocazione?
No, è una sfida che lanciamo al pubblico e alla giuria. Secondo noi è un film unico nella storia del cinema. È lungo, ma non difficile. È un grande omaggio alla storia del cinema. Spesso i film hanno paura di raccontare le storie ma le storie qui ci sono. Vedremo come saranno le reazioni. Per facilitare la visione, il film può essere visto anche a spezzoni.
Probabilmente un film del genere non avrà la possibilità di arrivare nelle sale dei cinema, come la maggioranza dei film del Festival. È un problema?
È un tema molto discusso. Ma sono sicuro che questa situazione si verificava pure negli anni Sessanta. Un festival come il nostro è un festival delle scoperte e dell’avanguardia. Lascia la possibilità di mostrare certi film, anche film molto lunghi. Ogni tanto questi film arrivano anche nelle sale e hanno pure successo. Pensiamo a ‘Heimat’ di Edgar Reitz in Germania. Sono d’altronde dell’idea che i nuovi dispositivi quali gli smartphone permettano di vedere questi film in modo diverso. Un pezzo ogni tanto.
Rimane il problema che il Pardo d’Oro commercialmente non ha lo stesso effetto della Palma d’Oro di Cannes oppure dell’Orso d’Oro di Berlino…
Non posso negarlo. Negli ultimi anni i film vincitori di Locarno non erano successi commerciali ma ci sono pure esempi positivi. Nel mio primo anno da direttore, il premio per la miglior attrice è andato a Brie Larson, tre anni prima che ricevesse un Oscar. Oppure il Film ‘As boas maneiras’ di Juliana Rojas e Marco Dutra che ha vinto un premio nel 2017 viene proiettato ancora oggi nelle sale brasiliane.
Carlo Chatrian
Nato nel 1971 a Torino, si è laureato in Lettere e Filosofia presso l’Università di Torino nel 1994, diventando poi giornalista e critico. È stato caporedattore della rivista Panoramiques e ha collaborato come critico alle riviste Duellanti, Filmcritica e Cineforum. Ha pure collaborato con festival e istituti in qualità di programmatore
Al Festival del film LocarnoCollegamento esterno è stato membro del comitato di selezione dal 2006 al 2009 e curatore della retrospettiva dal 2008. Il 4 settembre 2012 è diventato direttore artistico del Festival Locarno. Il 22 giugno 2018 è stato nominato direttore artistico del Festival di BerlinoCollegamento esterno quale successore di Dieter Kosslick (70 anni) che lascerà dopo l’edizione del 2019 (7-17 febbraio).
Chatrian vive attualmente nella Valle d’Aosta con la moglie e tre figli.
Questo ci permette una piccola parentesi. Stiamo facendo quest’intervista nel PalaCinema che dall’anno scorso è sede del Festival e dispone di tre bellissime sale. Durante il Festival non tutti gli spettatori trovano posto ma durante l’anno ci sono poche persone. Le sale cinematografiche in tutta la Svizzera sono in crisi. Cosa si può fare per invertire la tendenza?
Non so se spetta a me dare consigli. Penso che i temi sui quali stiamo parlando dovrebbero far riflettere i gestori delle sale cinematografiche. Forse si potrebbe variare un po’ la programmazione. Gli spettatori odierni devono sentire il bisogno e la necessità di uscire dalla propria casa per vedere un film in un altro luogo.
Le sale sono in crisi, ma i festival vivono un boom. A Locarno non si guardano solo film, ma ci sono pure momenti dedicati a incontri su temi di società, spazi per feste e divertimento. Il Festival ha cambiato denominazione, dall’anno scorso non si chiama più Festival del film di Locarno, ma solo Locarno Festival. Il nome film è stato tolto. Non è più sufficiente mostrare solo dei film?
La vedo in modo diverso. Vedere un film è un evento di società. E così rimane. Il nome del Festival è stato abbreviato, ma tutti sanno che i film sono il cuore di questo festival. Solo durante il Festival la Piazza Grande diventa un grande cinema a cielo aperto. I film penetrano in questi giorni nella città. Tutti gli altri eventi sono collaterali, creano una cornice.
Qual è stato il momento più difficile nella sua carriera da direttore a Locarno?
Tanti penseranno alle discussioni e alle polemiche che ci sono state ad esempio in merito alla presenza di Roman Polanski nel 2015. Ma per me il momento più difficile è stato antecedente al primo festival, quando nel gennaio 2013 mi sono recato a San Pietroburgo per invitare il regista Aleksandr Sokurov per il prefestival “L’immagine e la parola”. L’incontro nel suo enorme ufficio era una sfida, una tegola enorme che ho dovuto spostare. Ma anche la prima serata sul palco della Piazza Grande è stata tutt’altro che facile.
Da anni si discute su glamour e star al Festival. Una volta si trova che ce ne siano troppe, l’anno successivo ci si lamenta perché ce ne sono troppo poche. Lei si snerva per queste discussioni?
No. Lascio questa discussione ai media. Sono fiero che siamo riusciti a portare grandi personaggi a Locarno in questi anni. Personalmente forse la presenza che mi ha toccato maggiormente è stata quella del regista Michael Cimino nel 2016.
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Una volta ha criticato la popolazione locale, poiché non sostiene abbastanza il Festival. Cosa voleva dire esattamente?
Vengo dalla Valle d’Aosta e conosco bene la mentalità della gente di montagna. Sono persone fiere del loro territorio e ci tengono istintivamente a difenderlo; così facendo spesso non si rendono conto di ciò che hanno. La mia impressione è che non tutti i ticinesi siano sufficientemente consapevoli di quanto il Festival contribuisca a creare un’immagine positiva di questa regione.
Lei va a Berlino, come direttore artistico della Berlinale. Evidentemente non può ancora parlare del nuovo lavoro. Ma una cosa ci può dire: ha già cominciato a studiare il tedesco?
L’anno scorso mia figlia ha cominciato a studiare tedesco alle Scuole superiori. Così ho iniziato con lei. Purtroppo in dicembre, a causa di tanti viaggi, ho dovuto smettere, ma riprenderò al più presto. Il tedesco però non è una lingua facile…
La sua famiglia si trasferirà?
Mio figlio maggiore frequenta l’ultima classe delle Superiori, non ha senso che venga a Berlino dove comincerò a tempo pieno solo nell’aprile 2019. Vedremo poi cosa fare.
Cosa porterà con sé da Locarno per il futuro?
Il lato umano. Tutte le persone con le quali ho lavorato. Ma pure il pubblico. Mi emoziona sempre pensare che qui c’è gente che ha così tanta voglia di condividere questa passione per il cinema. Non so cosa mi aspetta a Berlino, ma sicuramente non c’è la Piazza Grande.
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