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Caso Lundin: un manager petrolifero svizzero a processo per crimini di guerra

South Sudan displaced people
La compagnia petrolifera Lundin è accusata di aver alimentato le guerre del petrolio in Sudan una ventina di anni fa, provocando indirettamente la morte di migliaia di persone e costringendo alla fuga altre 200'000. Keystone / Jason Patinkin

Due ex dirigenti dell'impresa svedese Lundin, tra cui l'ex CEO, lo svizzero Alex Schneiter, sono finiti sotto processo questa settimana per complicità nei crimini di guerra avvenuti in Sudan. Un caso dalla risonanza internazionale.

L’ex CEO di Lundin Petroleum, lo svizzero Alex Schneiter, e il suo ex presidente, lo svedese Ian Lundin, entrambi residenti in Svizzera, sono comparsi questa settimana in tribunale a Stoccolma. Sono sospettati di aver alimentato le guerre del petrolio in Sudan tra il 1997 e il 2003, o perlomeno di aver coscientemente chiuso gli occhi mentre le forze armate e le milizie sostenute da Karthoum commettevano gravi abusi contro la popolazione civile per “proteggere” un giacimento petrolifero sfruttato da Lundin nella parte meridionale del Paese. Queste violenze, secondo la procura svedese, hanno incluso bombardamenti, spari sulla popolazione civile da elicotteri e incendi di villaggi e colture.

I due manager respingono ogni accusa. Parlando alla stampa di Stoccolma all’inizio del processo, Ian Lundin ha dichiarato che tutte le accuse sono false e di essere “ansioso di difenderci in un’aula di tribunale”.

“Si tratta davvero di un processo storico”, dice l’avvocato svizzero esperto di responsabilità aziendale Gerald Pachoud a SWI swissinfo.ch. “Riflettiamo da tempo sulla possibilità che i manager vengano denunciati per le loro attività aziendali, ma fino ad ora si trattava di una possibilità teorica. Questo caso mostra che le aziende e i manager devono essere estremamente cauti quando operano in zone di conflitto”.

L’unico altro caso simile finora è quello contro l’azienda cementifera Lafarge (ora parte del gruppo svizzero Holcim) accusata in Francia di crimini contro l’umanità per aver mantenuto in attività una fabbrica in Siria durante la guerra civile e aver versato presunti pagamenti a gruppi jihadisti, compreso il sedicente Stato Islamico (ISIS).

Altri sviluppi

Risonanza in Svizzera

Pachoud spiega che il processo ha una grande risonanza, sia giuridica che politica, ben oltre i confini svedesi. “Evidenzia il ruolo che tutti i Paesi – Svizzera inclusa – devono svolgere nel mettere in guardia o nel consigliare le aziende a loro legate quando operano in ambienti problematici”.

Quando lavorano all’estero, le aziende hanno contatti con le ambasciate del proprio Paese e queste potrebbero fare di più per metterle in guardia sui rischi legati ai diritti umani, spiega l’avvocato. Lo fanno, in una certa misura, ma questo canale non è adeguatamente sfruttato. I e le dirigenti di azienda potrebbero essere coscienti dei rischi, ma non tanto quanto il corpo diplomatico.

In più, aggiunge Pachoud, la Confederazione è un centro nevralgico per il commercio di materie prime e per le multinazionali come Lundin, “il che evidenza come la Svizzera abbia l’interesse diretto di assicurarsi che le compagnie con sede nel suo territorio si comportino bene all’estero. Ne va della reputazione del Paese”.

Lundin Petroleum (che ora ha cambiato nome ed è stata quasi completamente venduta) era presente anche in Svizzera. Nel 2018, la polizia elvetica ha cooperato con quella svedese effettuando dei controlli a sorpresa negli uffici della compagnia a Stoccolma e a Ginevra.

Un processo lungo e complesso

Come ha spiegato Ian Lundin alla stampa, queste accuse pendono sulle teste dei due ex dirigenti da più di dieci anni. Nonostante costosi avvocati e molti ricorsi, il processo sta ora andando avanti. Ma ci vorrà parecchio tempo prima di vederne la fine. Si prevede che durerà fino a febbraio 2026, con udienze tre giorni a settimana. Le vittime che si sono costituite parte civile sono 34 e saranno sentiti 57 testimoni, tra cui anche personalità di alto profilo come l’ex premier svedese Carl Bildt, l’ex ministro degli interni tedesco Gerhard Baum e l’ex responsabile degli affari africani presso il Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, John Prendergast.

“I casi internazionali sono sempre complicati, perché vanno trovate le testimonianze ed è spesso difficile recarsi sul posto per investigare”, dice Pachoud. “Nonostante ciò, si è deciso di andare avanti con il processo, quindi sono sicuro che la procura abbia costruito un caso piuttosto robusto”, aggiunge.

L’accusa di complicità potrebbe rivelarsi complessa. “Il problema con la complicità è che, nella maggior parte dei casi, deve essere dimostrato un comune intento e questo è davvero un grande ostacolo. In questo caso, tuttavia, sembra che le prove siano abbastanza schiaccianti a causa delle atrocità in questione e dall’apparente cecità volontaria nelle attività di Lundin in Sudan”, afferma Pachoud.

Qualunque l’esito, il processo rappresenta un segnale molto forte. “La cosa importante è che sta avendo luogo”, sottolinea Pachoud. “Il risultato è quasi – e sottolineo il ‘quasi’- non altrettanto importante. Il fatto che i manager siano stati denunciati e che il processo stia davvero avvenendo è un segnale molto importante per le aziende”.

Per la legge svedese, qualora venissero condannati i due imputati rischiano l’ergastolo. Bisognerà aspettare almeno due anni per saperlo.

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