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Esprimere la propria identità con il velo, così come con il berretto

Velo tradizionale o moderno, sobrio o colorato, oggi il velo viene sempre più spesso usato per mostrare la propria appartenenza ad una comunità o religione. Keystone

Sul velo si sono focalizzate le tensioni intorno all’Islam in seno alla società occidentale. Un’esposizione a Friburgo ricorda i suoi diversi significati e che quest’ultimo non è appannaggio esclusivo della religione musulmana o della donna. Oggi è diventato un oggetto per affermare la propria identità in un mondo globalizzato, indica François Gauthier, professore di sociologia delle religioni presso l’Università di Friburgo.

Religioso o laico, cristiano o musulmano, portato dalla donna o dall’uomo, simbolo tradizionale o capo d’abbigliamento alla moda. L’esposizione «voile et dévoilement» si sofferma sulla lunga storia del velo e sui suoi diversi usi. 

In una società occidentale che ha scelto di «disvelarsi», il velo suscita spesso polemiche e incomprensioni. Tuttavia è molto di più di tutto questo. Su internet, alcuni attivisti creano blog, aprono forum di discussione o pubblicano video per dare dei consigli su come portare il velo. Gli stilisti creano veli alla moda. Per il sociologo delle religioni François Gauthier, questa nuova visibilità del velo è legata alla mondializzazione. 

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Il velo in tutte le sue espressioni

Questo contenuto è stato pubblicato al Il velo esisteva prima dell’Islam. La sua storia inizia all’incirca nel 1125 a.C. in Mesopotamia e nella regione mediterranea. Una legge assira prescriveva alle donne sposate e vedove di portare il velo. La mostra «Voile et Dévoilement» ricorda che il cristianesimo è stata la prima religione che ha imposto il velo alle donne. In seguito…

Di più Il velo in tutte le sue espressioni

swissinfo.ch: Se durante il 20° secolo avevamo assistito a un abbandono graduale del velo, oggi osserviamo un suo ritorno in alcuni Paesi. Questa evoluzione va letta come un’avanzata del rigorismo religioso? 

François Gauthier: Non è un ritorno. Si tratta piuttosto di una nuova visibilità religiosa. Dalla fine del 19° secolo agli anni Ottanta, le donne dei Paesi musulmani smettevano il velo. Quest’ultimo non va associato alla religione bensì alla tradizione. Infatti bisogna emanciparsi per diventare delle nazioni moderne. Negli anni Ottanta, la mondializzazione spinge i simboli religiosi verso una maggiore visibilità. Non si consumano prodotti, bensì segni identitari per mostrare la propria appartenenza a una comunità, non più a carattere nazionale ma globale. 

Per questo motivo è necessario esporre i propri simboli negli spazi pubblici per essere riconosciuto. È questa la ragione all’origine della crescente importanza conferita al velo, così come ai prodotti halal. Bisogna vivere secondo i precetti musulmani, essere visibile. La religione, non solo l’Islam, non è più confinata entro la sfera privata: deve farsi pubblicità.

La religione diventa quindi un prodotto di consumo? 

F.G.: In un certo senso è così. Bisogna però ricordare che la società dei consumi non mette in circolazione solo dei prodotti, bensì anche significati, simboli e identità. In un certo senso essa è a sua volta religiosa. Noi non consumiamo dei prodotti ma dei simboli identitari. Per esempio, i giovani si arrotolano i jeans fin sopra le caviglie per mettere in mostra le loro pantofole di ginnastica; calzature che sono l’espressione della loro personalità. Lo stesso discorso vale per i simboli religiosi; hanno assunto un carattere identitario come il berretto o altri capi di abbigliamento. In passato portare il velo era un atto comunitario, sinonimo di tradizione e d’appartenenza a un gruppo politico. Ora è una scelta identitaria personale.

«Non si consumano prodotti, bensì segni identitari per mostrare la propria appartenenza a una comunità, non più a carattere nazionale ma globale. »

Lei parla di «scelta». Ma alcuni Paesi impongono alle donne di portare il velo… 

F.G.: Si porta il velo in tutti i Paesi occidentali e non occidentali. Non dobbiamo dimenticare che i progetti politici seguono l’entusiasmo nei confronti del nuovo velo di tipo consumistico. Le autorità ritornano a imporre il velo alle donne perché è di nuovo alla moda. La loro imposizione sarebbe altrimenti destinata a fallire. 

Per numerose femministe, le donne occidentali che portano il niqab legittimano le pratiche dei Paesi che sottomettono le donne. È un argomento pertinente poiché i simboli religiosi superano le frontiere di uno Stato: il velo ha un significato anche nello spazio globale. Questi discorsi mostrano che la scelta di portare il velo ha una valenza non solo individuale bensì può legittimare l’obbligo in alcuni Paesi, come l’Iran o gli Emirati Arabi Uniti. 

Internet e gli spazi sociali hanno avuto a loro volta un ruolo nella nuova tendenza a indossare il velo?  

F.G.: Essi hanno un ruolo enorme. Ho partecipato a uno studio sulla Tunisia. Le donne hanno iniziato a portare il velo alla fine degli anni Novanta, rischiando di farsi arrestare poiché il regime del presidente Ben Ali lo vietava. Tutte le donne con il velo che abbiamo intervistato hanno indicato che la loro fonte teologica era il predicatore televisivo egiziano Amr Khalîd, un uomo formatosi alla corte dei mercati finanziari di Londra e diventato una star della televisione nel Maghreb. [Nel 2007, il Time Magazine lo definisce uno degli uomini più influenti al mondo, ndr.]. In quel periodo, il suo sito internet era il più consultato al mondo, dopo quello di Al-Jazeera. Non sono più le autorità religiose a fissare le regole; è il mercato, la società dei consumi, i media. È qualcosa di nuovissimo, che non ha nulla a che vedere con un ritorno al passato.

«La Svizzera deve rendersi conto del suo modo ipocrita di gestire queste questioni.»

Il velo suscita accese discussioni in una società occidentale che non sa bene che regole fissare. Come risolvere le controversie intorno a questo simbolo religioso? 

F.G.: Il problema è che continuiamo a vedere la religione com’era in passato. La pensiamo secondo un modello protestante, confinata in uno spazio privato. I politici e i media devono iniziare a capire che il mondo è cambiato e che la religione continuerà a essere visibile. La crisi è causata dall’incomprensione, dall’idea che stiamo assistendo a un ritorno dei religiosi. Si tratta invece di un cambiamento che interessa tutte le religioni. L’Islam crea dei problemi per la sua ampia diffusione tra i migranti e poiché è un monoteismo in concorrenza con il cristianesimo e a causa della visibilità del velo.


Secondo me è necessario mettere delle regole per evitare che i bambini si rifiutino di stringere la mano alla loro insegnante, che le piscine siano aperte solo alle donne in determinati orari. Inoltre bisogna vietare il velo a scuola. Il burkini andrà invece accettato. Non ci saranno soluzioni valevoli per tutti. Saranno diverse in Inghilterra, Francia o Svizzera.

François Gauthier è professore di sociologia delle religioni presso l’Università di Friburgo. In precedenza, il canadese ha lavorato per il Dipartimento delle scienze delle religioni dell’Università del Québec di Montréal.

In Svizzera, il canton Ticino ha introdotto il divieto di dissimulare il volto e a livello nazionale è stata lanciata un’iniziativa volta a vietare il burqa. Qual è la sua opinione al riguardo? 

F.G.: In Svizzera abbiamo la tendenza a essere piuttosto conservatori per quanto riguarda le questioni legate al velo e alla sua visibilità. Nello stesso tempo, Svizzera Turismo promuove il nostro Paese negli Stati del Golfo. Non solo tolleriamo le turiste con il burqa, bensì stendiamo loro un tappeto rosso. Facciamo di tutto per soddisfare i loro desideri. In certi negozi, nei pressi dei registratori di cassa ci sono delle cannucce gratuite affinché le nostre ospiti con il velo possano dissetarsi senza problemi. 

Dall’altra parte, l’Unione democratica di centro (UDC, destra conservatrice) si serve della donna con il burqa per incutere paura con i suoi manifesti, anche per indicare gli stranieri di terza generazione. È una sorta di schizofrenia. Non abbiamo alcun problema con le turiste che indossano in burqa poiché generano delle entrate. Altro discorso vale invece per le persone residenti nel nostro Paese. La Svizzera deve rendersi conto del suo modo ipocrita di gestire queste questioni.  


Traduzione di Luca Beti

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