I governi devono affrontare l’impatto del commercio sul clima
La produzione e lo scambio di merci sono il cuore del nostro mercato globalizzato e hanno un impatto ambientale significativo. Eppure, alla COP26 si è discusso poco di come renderli più sostenibili, dice a SWI swissinfo.ch l'ex direttore dell'Istituto mondiale del commercio (WTI).
I beni che compriamo provengono da tutto il mondo – e spesso non sono prodotti in modo sostenibile. Thomas Cottier, professore emerito all’Università di Berna ed ex direttore generale dell’Istituto mondiale del commercio (World Trade Institute), ritiene che prendere le giuste decisioni commerciali e premiare le merci importate che sono frutto di una produzione sostenibile potrebbe aiutare significativamente a raggiungere gli obiettivi fissati all’ultima conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico (COP26).
Tra questi vi sono il mantenimento del riscaldamento globale entro 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali e la mobilitazione di almeno 100 miliardi di dollari di finanziamenti annuali per il clima ai Paesi in via di sviluppo
Un buon esempio è l’accordo di libero scambio della Svizzera con l’Indonesia, che permette l’importazione sovvenzionata di olio di palma a patto che si rispettino gli standard di sostenibilità.
Nonostante ciò, alla COP26 di Glasgow – che si è tenuta lo scorso novembre – si è a malapena discusso di come le misure commerciali possano frenare il cambiamento climatico. Un’opportunità mancata, secondo Cottier. Il professore sostiene che i governi devono concentrarsi sulle infrastrutture verdi e sulla produzione industriale invece che sulle consumatrici e i consumatori.
SWI swissinfo.ch: Quali conclusioni trae dalle decisioni prese alla COP26 a novembre?
Thomas Cottier: Le decisioni prese a Glasgow sulla base dell’Accordo di Parigi del 2015 sono essenzialmente impegni unilaterali degli Stati. La comunità internazionale non ha davvero i mezzi per renderli vincolanti. Se Paesi come l’India e la Cina non prendono impegni chiari, non si può fare molto. Inoltre, troppo pochi finanziamenti sono stati assicurati per le misure di adattamento al cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo, e le nazioni industrializzate devono ancora impegnarsi a contribuire al Fondo verde per il clima [una piattaforma globale per reagire ai cambiamenti climatici investendo in progetti a basse emissioni] e ad altri strumenti.
Quindi bisogna fare di più…
Decisamente, direi di sì. Alla COP26 non c’è stata una vera discussione sulle misure commerciali per far progredire gli obiettivi della conferenza. Molte delle misure prese dai Paesi influenzeranno il commercio internazionale di beni e servizi. Gli Stati dovrebbero cercare di trovare un terreno comune in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
Finora l’OMC con sede a Ginevra e i suoi membri hanno assunto una posizione piuttosto passiva. Si astengono dall’affrontare proattivamente il problema del cambiamento climatico o della biodiversità, tranne che nei negoziati in corso sulla pesca, che cercano di ridurre i sussidi ai combustibili fossili per le flotte pescherecce.
D’altra parte, sono stati fatti importanti progressi nella contabilizzazione delle emissioni di CO2, che è cruciale per definire un prezzo del carbonio valido a livello globale e un sistema di scambio del carbonio.
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A quali questioni commerciali pensa che si debba dare la priorità?
La più importante riguarda il riconoscimento dei processi e metodi di produzione (PPM) [dall’inglese “Processes and production methods”]. Questi definiscono il trattamento di beni e servizi. È sempre più rilevante come un determinato prodotto viene realizzato, se in modo sostenibile o meno. Le condizioni di mercato variano a seconda della sostenibilità del ciclo produttivo.
Per esempio, i PPM facilitano l’accesso al mercato per l’acciaio fabbricato in modo sostenibile, attraverso l’uso di energia idroelettrica, termica, eolica o dell’idrogeno solare, ma impongono tariffe più alte per i prodotti basati sui combustibili fossili e quindi inquinanti.
Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il termine PPM (Processi e metodi di produzione) definisce il modo in cui i prodotti sono fabbricati o lavorati. Ciò prende in considerazione anche come le risorse naturali sono estratte o raccolte.
I PPM possono avere un impatto ambientale significativo. I processi e i metodi utilizzati nella produzione possono influenzare le caratteristiche di un prodotto, che potrebbe inquinare o degradare l’ambiente quando viene utilizzato. Ma anche un processo o un metodo stesso potrebbe avere un impatto ambientale, per esempio rilasciando sostanze inquinanti nell’aria o nell’acqua.
Le politiche relative alla PPM sono strumenti importanti per promuovere lo sviluppo sostenibile, per esempio assicurando che i produttori sostengano i costi dei danni ambientali.
La giurisdizione del sistema di risoluzione delle controversie dell’OMC permette, a certe condizioni, di tenerne conto, ma la questione dovrebbe essere negoziata in modo più ampio.
Bisognerebbe creare un collegamento con le regole sul trasferimento di tecnologie e conoscenze sostenibili ai Paesi in via di sviluppo, che generalmente considerano i processi di produzione come misure protezionistiche e restrizioni commerciali mascherate. Ma questo richiede nuove misure per incentivare l’accesso alla proprietà intellettuale, in particolare ai brevetti, per esempio attraverso sconti fiscali a chi esporta.
Altre questioni riguardano le future regole per collegare le reti elettriche a livello transnazionale al fine di facilitare il commercio di energia idroelettrica, eolica e solare, che dipendono tutte da condizioni meteorologiche variabili.
“Al momento, siamo ancora troppo dipendenti da impegni volontari e unilaterali, che non comportano alcun obbligo sul piano del diritto internazionale.”
Perché, nel nostro mondo globalizzato, le misure commerciali non sono realmente prese in considerazione nelle politiche globali sul cambiamento climatico?
Le ragioni risiedono principalmente nella dipartimentalizzazione delle politiche e delle responsabilità dei governi. In Svizzera, per esempio, il Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni è responsabile dei negoziati sul cambiamento climatico in seno alle COP.
Il Dipartimento federale dell’economia, della formazione e della ricerca, che si occupa del commercio internazionale, non è direttamente coinvolto. E il Dipartimento degli affari esteri non coordina gli sforzi internazionali, né lo fa il Consiglio federale.
Se cerchiamo dei modelli, possiamo guardare all’Unione europea e alle sue politiche e ai suoi programmi globali sviluppati nell’ambito del Green Deal [Patto verde europeo] e degli strumenti correlati.
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Grazie al suo potere di mercato, l’UE è in grado di definire proattivamente l’agenda attraverso misure unilaterali, come lo scambio di carbonio o il Carbon Border Adjustment [la tassa europea sul CO2 che mira a proteggere le industrie europee dalla concorrenza di aziende straniere non soggette a standard climatici].
Quest’ultimo usa i PPM per compensare la concorrenza sleale causata dalle importazioni di beni non prodotti in modo sostenibile. Ciò riguarda, per esempio, l’importazione di acciaio a buon mercato realizzato usando combustibili fossili rispetto all’acciaio prodotto in modo sostenibile che è più costoso.
Il commercio e l’ambiente sono meglio coordinati nell’UE piuttosto che in Svizzera.
Possiamo dire che i processi e metodi di produzione sono strumenti utili per comprendere l’intera catena di approvvigionamento di un dato bene e valutarne la sostenibilità? Come si può determinare il reale impatto ambientale di un prodotto?
Secondo le regole classiche di non discriminazione, i prodotti importati hanno il diritto di essere trattati allo stesso modo dei prodotti nazionali. In linea di principio, i modi di produzione sono irrilevanti. Il principio della sostenibilità, che bilancia le preoccupazioni economiche, sociali e ambientali, cambia questa equazione. La protezione degli standard lavorativi e i timori ambientali, come il cambiamento climatico o la biodiversità, diventano centrali.
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I processi e metodi di produzione permettono agli Stati importatori di valutare l’impatto sociale ed ecologico nel Paese di produzione. Non si tratta di rintracciare le origini di tutti i beni, i loro componenti e il momento in cui sono stati prodotti. Questo sarebbe praticamente impossibile. Ma significa concentrarsi su un certo numero di prodotti altamente inquinanti, come il cemento, l’acciaio e altri metalli, l’elettricità e altri beni di base.
Al momento, siamo ancora troppo dipendenti da impegni volontari e unilaterali, che non comportano alcun obbligo sul piano del diritto internazionale. Per questo abbiamo bisogno di perfezionare il sistema con misure commerciali e creare un quadro appropriato per questo fine nell’OMC, o nella stessa misura in accordi bilaterali preferenziali.
A che tipo di misure si riferisce?
Un esempio recente riguarda la Svizzera e l’accordo di libero scambio dell’AELS [l’Associazione europea di libero scambio] con l’Indonesia sull’olio di palma. Tale accordo implementa il cambio di paradigma attraverso i PPM. Le quote tariffarie preferenziali sull’olio di palma importato dall’Indonesia sono legate a metodi di produzione sostenibili e a standard concordati.
“La transizione energetica è una grande sfida per tutti i Paesi, ma in particolare per una democrazia diretta.”
Lei cita un esempio positivo dalla Svizzera, ma l’elettorato elvetico ha respinto la proposta di revisione della legge sul CO2. Dove potrebbe migliorare la Svizzera?
Il rifiuto della legge sul CO2 dovrebbe insegnarci che è importante adottare misure di trasferimento tecnologico che siano compatibili con la giustizia sociale. È difficile trattare le città con una fitta rete di trasporto pubblico allo stesso modo delle campagne, dove le persone dipendono dalle automobili o dal riscaldamento decentralizzato. Gli approcci che si concentrano troppo sulle consumatrici e sui consumatori sono difficili da far passare nei referendum. Ci si dovrebbe invece focalizzare sulle infrastrutture, la produzione, l’industria e le transizioni a lungo termine, che danno la possibilità di creare crescita, nuove tecnologie e nuovi posti di lavoro.
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Una valutazione del think tank Climate Analytics ha messo in luce che gli sforzi della Svizzera per frenare il cambiamento climatico sono insufficienti e che se altri Paesi seguissero il suo esempio le temperature potrebbero aumentare fino a 4 gradi Celsius entro la fine del secolo. Nel frattempo, le importazioni sono aumentate bruscamente negli ultimi anni. Le prospettive sembrano piuttosto cupe…
Se includiamo le importazioni nell’impronta globale, la Svizzera ha davvero ancora molto da fare a tutti i livelli di governo, sia federale sia cantonale. Molto dipende dalle politiche delle grandi città, che dovrebbero essere rafforzate. La transizione energetica è una grande sfida per tutti i Paesi, ma in particolare per una democrazia diretta.
La Svizzera dovrà cooperare strettamente con l’UE per raggiungere i suoi obiettivi climatici. E a livello internazionale, il Paese potrebbe proporre iniziative sul commercio all’OMC e impegnarsi seriamente ottimizzando il suo settore finanziario operante a livello globale nell’ottica di investimenti sostenibili. La responsabilità sociale delle imprese rimane all’ordine del giorno.
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