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Covid-19: la Svizzera torna a sorridere. Ma per quanto tempo?

Sara Ibrahim

Mentre in molti Paesi, tra cui la Svizzera, si torna alla normalità, la Cina fatica a contenere una nuova ondata e nel mondo tante persone non hanno ancora ricevuto la prima dose del vaccino.

Da oggi, primo aprile, la Svizzera torna alla “normalità”. Il governo elvetico ha deciso mercoledì di rimuovere le ultime restrizioni in vigore: via l’obbligo della mascherina sui trasporti pubblici e nelle strutture sanitarie e anche l’isolamento per le persone positive. La gente torna a “sorridere”, si legge sui giornali, e l’ottimismo è alle stelle secondo un sondaggioCollegamento esterno condotto dalla Società svizzera di radiodiffusione (SSR). La metà delle persone intervistate, però, si aspetta il peggio questo inverno e l’obbligo della mascherina e del certificato Covid divide gli animi.

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In effetti, io stessa sono titubante in merito alla scelta di abbandonare del tutto la mascherina: da quando ho smesso di indossarla nei negozi e al supermercato, il mio sistema immunitario si è ribellato e si è dimostrato meno reattivo. Risultato? Sono finita a letto con una brutta influenza.

Di sicuro, la decisione non è piaciuta all’epidemiologo Marcel Salathé, che in un’intervista si era detto “preoccupato” per via del rapido aumento dei casi e aveva esortato il Governo elvetico ad aspettare prima di revocare tutte le restrizioni, un invito che è rimasto inascoltato. Anche le parole del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, che ha definitoCollegamento esterno l’attuale aumento dei casi “la punta dell’iceberg”, non hanno spinto alla prudenza.

Cosa ne pensate dell’abolizione di tutte le misure contro la Covid-19? Siete sollevati o preoccupati? Fatemi sapere la vostra opinione!

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Troppo presto per cantar vittoria

Il mio collega Simon Bradley ha parlato di recente con Antoine Flahault, direttore dell’Istituto di salute globale dell’Università di Ginevra. Flahault ipotizza alcune ragioni che spiegherebbero la recrudescenza dei casi – citando l’inquinamento dell’aria fra queste – e dice che la Covid-19 dovrebbe continuare a preoccuparci: non è né un’influenza e né un raffreddore, ma è una malattia che può avere conseguenze severe, tra cui il Long Covid, afferma l’esperto. Simon Bradley ci racconta di più sulla conversazione con Flahault:

Flahault è stato molto chiaro sul fatto che la pandemia è lungi dall’essere finita ed è preoccupato per gli alti tassi di mortalità, soprattutto in Europa. I governi che allentano le restrizioni e la nuova sottovariante BA.2 di Omicron – più contagiosa di circa il 30% – potrebbero essere responsabili della recente impennata dei casi. Ma Flahault sostiene anche la teoria secondo la quale l’inquinamento dell’aria in inverno e le particelle fini potrebbero essere collegate all’aumento delle infezioni da Covid-19.

E la Svizzera come si è comportata? Simon Bradley ha commentato con Flahault anche le misure prese dal Paese alpino e i rischi che corre:

La Svizzera ha gestito bene la pandemia fin dall’inizio, dice Flahault. Ma la copertura vaccinale elvetica è fragile (69%) e l’esperto avverte che se l’immunità comincia a diminuire, il Paese potrebbe trovarsi nella stessa situazione della Corea del Sud, che ha recentemente sperimentato un’ondata di ricoveri in unità di terapia intensiva e registra ancora 300 morti in media ogni giorno. Inoltre, è in testa per numero medio giornaliero di nuovi casi segnalati. Ecco perché Flahault aspetterebbe a dire troppo rapidamente che la sottovariante di Omicron è lieve.

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L’immunità, quella sconosciuta

Un altro motivo per cui gli esperti e le esperte chiedono cautela è che, a due anni dall’inizio della pandemia, misurare l’immunità della popolazione è ancora un’impresa, scrive la mia collega Jessica Davis Plüss.  “Statisticamente, non sappiamo ancora che livelli di anticorpi servano per stabilire se una persona è resistente all’infezione, se può trasmetterla ad altri, né quanto sia protetta dalla malattia”, ha detto il virologo Didier Trono a Jessica Davis Plüss.

L’ondata causata dalla variante Omicron ha infatti dimostrato che le attuali misurazioni diagnostiche non forniscono informazioni affidabili sulla protezione immunologica, come ha sottolineato anche la Task force nazionale Covid-19 in un rapportoCollegamento esterno. Poter determinare l’immunità degli individui, però, aiuterebbe a prevedere i decorsi gravi della malattia.

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Inoltre, permetterebbe di prepararsi a una possibile vaccinazione in autunno. “È importante monitorare i decorsi gravi, le mutazioni e l’immunità della popolazione rispetto alle diverse varianti del virus”, ha affermatoCollegamento esterno l’immunologo dell’Università di Zurigo Christian Münz. Per questo motivo, è fondamentale continuare a investire nella ricerca per monitorare l’evoluzione della Covid-19. L’attuale situazione geopolitica, tuttavia, non sta favorendo la collaborazione sul SARS-CoV-2.

Dalla Cina con furore

Un’altra questione inquieta la comunità scientifica al momento: l’aumento dei casi in Cina dovuto alla variante Omicron. Fino a poche settimane fa, la strategia “tolleranza zero” del Dragone, seppur piuttosto estrema, sembrava funzionare nel proteggere la popolazione dal virus. Anche l’economia ne aveva beneficiato, registrando una crescita del 10,5%, rispetto al 2,4% degli USA e allo 0,4% del resto dei Paesi sviluppati.

Ora la nuova ondata sta mettendo alla prova il governo di Pechino e sta dimostrando che tale modello non è sostenibile sul lungo termine. L’immunità naturale della popolazione cinese, messa sottochiave al primo starnuto, è infatti molto bassa, e quella vaccinale non è tra le migliori, per via della scarsa efficacia dei vaccini nazionali, come Pechino stessa ha ammesso.

Oltre a ciò, il tasso di persone sopra gli 80 anni vaccinate con due dosi è molto basso in Cina (51%). Questa situazione non è una buona notizia nemmeno per noi: la Cina ha una popolazione di oltre un miliardo di persone e una circolazione troppo elevata del virus tra individui non immunizzati potrebbe causare, oltre che molti morti, nuove mutazioni.

Equità vaccinale ancora lontana

Questo ci riporta a un’altra questione non meno importante: la distribuzione equa dei vaccini. Attualmente, nel mondo il 34% delle personeCollegamento esterno attende ancora di ricevere la prima dose del vaccino e solo il 59% è vaccinato con due dosi. La Svizzera sta contribuendo a colmare tale divario donando 15 milioni di dosi di vaccino contro il coronavirus all’iniziativa COVAX. Ma la “generosità” dei singoli Paesi non basta.

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Per cambiare davvero la situazione, bisognerebbe modificare il piano di produzione dei vaccini, creando una rete di Paesi a bassa popolazione – come la Svizzera (che già produce quello di Moderna), il Ruanda, la Nuova Zelanda e Singapore – che possano fabbricare dosi rapidamente, sia per la loro popolazione che per il resto del mondo.

“Penso che questo sia l’unico modo per aggirare l’inevitabile nazionalismo di dare i vaccini prima ai propri cittadini”, ha detto in un podcastCollegamento esterno il britannico Jeremy Farrar, direttore del Wellcome Trust, una delle più grandi fondazioni di ricerca medica del mondo. Speriamo che anche queste parole non restino inascoltate.

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