Poco amata dai giudici, la legge sulla parità fatica a imporsi
La Legge federale sulla parità dei sessi è entrata in vigore in Svizzera 20 anni fa. Poco utilizzata, non è riuscita a eliminare tutte le disuguaglianze, in particolare in materia di salari. La causa: la reticenza delle vittime, ma pure quella dei giudici.
«Desidera avere figli?». A parte in alcuni casi particolari, un datore di lavoro non ha il diritto di porre questa domanda a una candidata durante un colloquio di assunzione. Succede però che alcuni lo facciano e, in questo caso, la postulante ha il diritto di mentire. Se non viene assunta a causa del suo desiderio di gravidanza, e se può dimostrarlo, la candidata può invocare la Legge federale sulla parità dei sessi (LParCollegamento esterno) per avviare un procedimento. Nei fatti, questo succede però di rado.
Dottore in giurisprudenza, avvocato e professore all’Università di Neuchâtel, Jean-Philippe Dunan afferma che «durante l’assunzione, la discriminazione basata sul genere è praticata quotidianamente in Svizzera». Ma dall’entrata in vigore della LPar, ha registrato soltanto una cinquantina di procedimenti. La maggior parte di questi, osserva, si è conclusa di fronte all’autorità cantonale di conciliazione.
Cosa prevede la legge sulla parità?
La Legge federale sulla parità dei sessi (LPar) è entrata in vigore il 1º luglio 1996. Questo strumento di promozione della parità tra donne e uomini vieta le discriminazioni, siano esse dirette o indirette.
Si applica a tutti gli ambiti della vita professionale, dall’assunzione al licenziamento, passando dalla formazione continua, il salario o le molestie sessuali sul posto di lavoro.
Per facilitarne l’applicazione, la legge prevede la gratuità dei processi nei tribunali cantonali, un alleggerimento dell’onere della prova, la possibilità di azioni collettive e la tutela contro il licenziamento ritorsivo.
(Fonte: Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo)
Numerosi fattori spiegano il basso numero di procedimenti legati alle discriminazioni all’assunzione. Da un lato, è difficile fornire la prova di una discriminazione durante la fase di reclutamento, che avviene essenzialmente in modo orale. Dall’altro, la persona non assunta deve agire entro tre mesi dalla comunicazione da parte del datore di lavoro. Un lasso di tempo che la sfortunata candidata utilizza piuttosto per cercare un altro impiego.
Inoltre, secondo Jean-Philippe Dunan, la sanzione prevista, che equivale al massimo a tre mesi di salario, «è poco dissuasiva». «Conosco vittime che hanno ottenuto indennizzi di 1’000 franchi. Ma alla fine hanno dovuto sborsare più soldi per i costi legati al procedimento».
Legge citata in una sentenza su 1’500
Il problema della discriminazione al momento dell’assunzione è sintomatico. In generale, vi sono pochi procedimenti in Svizzera che concernono le discriminazioni tra uomini e donne. «Se la LPar mantenesse le sue promesse, i procedimenti basati su questa legge sarebbero numerosi. Ebbene, non possiamo dire che sia effettivamente così», constata la giudice federale Florence Aubry Girardin nel libro in francese “La parità tra donne e uomini nei rapporti di lavoro – 1996-2016: 20 anni di applicazione della LPar”.
Le cifre più recenti sono contenute in un rapporto del governo svizzero del 2006, che parla di 245 vertenze sfociate in un verdetto. Florence Aubry Girardin sottolinea che dalla sua entrata in vigore, la LPar è stata citata in un centinaio di sentenze del Tribunale federale. Nello stesso periodo, il Tribunale ha pronunciato circa 150’000 sentenze.
Eppure, i numeri mostrano che in Svizzera persistono disparità palesi. Secondo l’Ufficio federale di statistica, nel 2012 le donne hanno guadagnato il 18,9% in meno degli uomini nel settore privato e il 13,6% in quello pubblico. Circa il 40% di questi divari è dovuto a comportamenti discriminatori.
La paura di sporgere denuncia
In questo contesto, perché le donne non ricorrono più spesso alla LPar per far valere i loro diritti? La prima spiegazione è da ricercare nelle vittime stesse, spiega Pascal Mahon, professore di giurisprudenza all’Università di Neuchâtel. La responsabilità di agire, sottolinea, è unicamente della persona discriminata. La donna deve avere il coraggio di affrontare il suo datore di lavoro con il rischio di perdere il posto, di essere stigmatizzata o di non più trovare un impiego.
«Ai giudici di prima istanza non piace la LPar o non la applicano in tutte le situazioni in cui andrebbe applicata» Florence Aubry Girardin, giudice federale
La giudice federale Florence Aubry Girardin suggerisce un’altra spiegazione. «Ai giudici di prima istanza non piace la LPar o non la applicano in tutte le situazioni in cui andrebbe applicata». Le loro reticenze sono legate alle specificità procedurali di questa legge, che si distanziano dalle regole ordinarie.
Ad esempio, la vittima beneficia di un sistema di prova facilitata (ad eccezione dei casi di discriminazione durante l’assunzione o di molestie sessuali). Le basta quindi dimostrare la verosimiglianza di una discriminazione. Il datore di lavoro, da parte sua, deve allora dimostrare che non c’è stata disparità di trattamento o che questa si basa su motivi obiettivi.
Questo sistema, fa notare Florence Aubry Girardin, implica una modifica dei riflessi ordinari dei giudici. «Questa legge chiede loro un’attenzione particolare. Spesso, però, i giudici non hanno tempo a sufficienza a causa del sovraccarico nei tribunali». Così, a meno che la questione sollevata non rappresenti una violazione palese della LPar, i giudici non s’interrogano d’ufficio sulla possibilità di applicarla.
Un testo perfezionabile
Per garantire una migliore efficacia della legge sulla parità, Florence Aubry Girardin raccomanda di lavorare sull’informazione. In particolare, propone di introdurre delle giornate di formazione continua destinate ai giudici di prima istanza, affinché questa disposizione sia maggiormente conosciuta ed entri nella prassi giudiziaria.
La LPar è perfezionabile, ritiene Pascal Mahon. Il dottore in giurisprudenza auspica che il compito della sua applicazione non riponga soltanto sulle spalle della vittima di una discriminazione. «Dovremmo riflettere a un iter più collettivo». Secondo Pascal Mahon, il progetto di revisione della legge messo in consultazione a fine 2015 dal governo svizzero, che porrebbe le aziende di fronte alle loro responsabilità, rappresenta «un passo in questa direzione».
Responsabilizzare le aziende?
Di fronte al persistere delle disparità salariali tra uomini e donne, il governo svizzero ha deciso che vanno prese misure statali supplementari. In base alla modifica di legge proposta dall’esecutivo, i datori di lavoro che impiegano almeno 50 collaboratori sarebbero obbligati a effettuare, ogni quattro anni, un’analisi interna dei salari e di farla verificare da un organo di controllo esterno. Inoltre, dovrebbero comunicare i risultati ai dipendenti.
L’avamprogetto non prevede sanzioni nei confronti delle aziende. Gli organi di controllo si limiterebbero a redigere un rapporto. Una delle varianti studiate prevede comunque di segnalare all’autorità competente, verosimilmente l’Ufficio federale per la parità tra donne e uominiCollegamento esterno, i datori di lavoro che non hanno svolto l’analisi nei tempi previsti o che non l’hanno fatta controllare.
Durante la fase di consultazione, la revisione della LPar ha suscitato opinioni contrastanti. Secondo il sindacato Travail.Suisse, che chiede multe proporzionali al fatturato dell’azienda, la modifica è «ampiamente insufficiente». L’Alleanza delle società femminili svizzere ritiene da parte sua che bisognerebbe estendere i controlli a tutte le aziende.
Al contrario, l’Unione svizzera degli imprenditori afferma che le misure di rafforzamento della LPar sono «eccessive, burocratiche e inutili». Il progetto, sostiene, rappresenta un’enorme intrusione nella flessibilità del mercato del lavoro.
Traduzione dal francese di Luigi Jorio
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