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Una nuova strategia per contrastare l’Ebola e l’influenza?

personale sanitario in africa
L'epidemia di Ebola del 2014-2016 nell'Africa occidentale (qui una clinica a Monrovia, in Liberia) ha causato circa 28'000 contagi e 11'000 decessi. Keystone

Interruzione dei collegamenti aerei, chiusura delle frontiere o divieto di uscire di casa: in caso di epidemia si ricorre spesso a misure di confinamento. Tale strategia non è però sempre la più indicata e anzi potrebbe avere un impatto negativo sulla società, secondo uno studio svizzero.

«È necessario un approccio aggressivo per affrontare la diffusione di Ebola una volta per tutte». Con queste parole, il consigliere presidenziale della task-force anti Ebola in Sierra Leone, Ibrahim Ben Kargbo, aveva giustificato la decisione del suo governo di confinare la popolazione in casa per quattro giorni. Era il settembre 2014 e la misura aveva suscitato un certo scetticismo. Alcuni si erano chiesti se tale imposizione non fosse una violazione dei diritti umani.

una bambina e una gallina davanti a un edificio di cemento in africa
Epidemia di Ebola in Sierra Leone: casa messa in quarantena a Port Loko, nell’ottobre 2014. Keystone

Oggi, l’interrogativo che si pone Emanuele Massaro, ricercatore al Politecnico federale di Losanna (EPFL), si spinge oltre: limitare gli spostamenti delle popolazioni in caso di epidemia è davvero una strategia sensata? Dalle prime indicazioni contenute in uno studioCollegamento esterno che ha pubblicato di recente, si direbbe di no. O per essere più precisi, non forzatamente.

«Limitare gli spostamenti e confinare le persone, come fatto finora, non è sbagliato: se si considera esclusivamente il rischio di diffusione di un’epidemia, ridurre le connessioni è senza dubbio la soluzione migliore. Se però si tiene conto delle conseguenze economiche e sociali di una riduzione della mobilità, il discorso cambia», spiega Massaro a swissinfo.ch. «Ci sono situazioni in cui è meglio che la gente si possa spostare senza restrizioni».

Meglio ammalarsi tutti assieme

Per testare la sua ipotesi, lo scienziato del Laboratorio delle relazioni umane e ambientali nei sistemi urbani (HERUSCollegamento esterno) ha simulato l’apparizione e la propagazione di un’epidemia negli Stati Uniti. Tramite un modello matematico, ha tenuto conto non solo dei vari spostamenti, dal treno all’aereo, ma pure del comportamento che la gente adotterebbe spontaneamente in caso di epidemia. Ad esempio: evitare di frequentare luoghi pubblici.

La prima osservazione, spiega Massaro, conferma quanto emerso in precedenti studi – tra cui uno sull’EbolaCollegamento esterno – ovvero che la chiusura delle frontiere non fa altro che ritardare il picco epidemico di alcune settimane, senza ridurre in maniera determinante il numero di persone contagiate.

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La seconda conclusione, ed è qui la novità, è che la limitazione della mobilità ha un impatto negativo sulla resilienza di una società, ovvero sulla sua capacità di adattarsi al cambiamento e di ritrovare un funzionamento normale. «Impedire a una persona di recarsi al lavoro può avere delle ripercussioni socioeconomiche. Servizi e infrastrutture potrebbero essere perturbati», rammenta Massaro.

Certo, ma se una persona infetta si reca in ufficio rischia di contagiare, e di costringere così all’inattività, i colleghi. Non sarebbe peggio così? «Dipende. Per ciò che concerne la resilienza della società, è meglio ammalarsi tutti subito piuttosto che ammalarsi in pochi alla volta, ma su un periodo più lungo», risponde Massaro.

Crisi economiche e conflitti sociali

Secondo il ricercatore dell’EPFL, bisogna ripensare il modo di far fronte alle epidemie. «Molti degli studi precedenti nel campo dell’epidemiologia computazionale si concentravano sulla predizione del numero dei contagi: analizzavano quali fossero le migliori strategie – ad esempio la riduzione dei contatti o la diffusione di notizie allarmanti – per contrastare l’epidemia. In questo studio si riflette invece sull’impatto che queste limitazioni hanno in termini di costi per la società nel caso di una prolungata interruzione della mobilità e dei servizi, di potenziali crisi economiche e di conflitti sociali».

Tali considerazioni, aggiunge, possono comunque variare a seconda del tipo di epidemia. «Un conto è una normale influenza, un altro è un’epidemia dove il rischio di contagio può avere conseguenze molto gravi sulla salute umana», sottolinea.

Dilemma etico

Le conclusioni del ricercatore dell’EPFL si basano per ora su modelli matematici, quindi su situazioni teoriche. La prossima tappa sarà di applicare i modelli su casi reali di epidemie passate.

Ciò non toglie che lo studio pone le autorità politiche e sanitarie di fronte a un dilemma etico, che presto o tardi (alla prossima grande epidemia?) dovranno affrontare: meglio imporre una limitazione dei contatti tra le persone oppure lasciare che più individui vengano contagiati subito, al fine di evitare un’interruzione del funzionamento di un villaggio, una città o un paese?

MSF contro il divieto di viaggiare

L’organizzazione non governativa Medici senza frontiere (MSFCollegamento esterno), con sede a Ginevra, interviene spesso sul campo in caso di epidemia. «Il nostro obiettivo è di accedere al più gran numero di pazienti possibile, il più rapidamente possibile. MSF è quindi contraria ai divieti di viaggiare nelle zone infette, che contribuiscono all’isolamento delle comunità durante le epidemie. Durante le epidemie quali Ebola, soltanto le persone in stretto contatto con i malati rischiano infatti di essere contagiate», indica Esther Sterk, dottoressa di MSF, esperta di malattie tropicali ed epidemie.

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