Il business rischioso dell’aiuto allo sviluppo
Il governo svizzero vuole lavorare di più con le imprese del settore privato per promuovere lo sviluppo delle regioni più povere del mondo. L'esperienza di altri paesi dimostra che dovrebbe procedere con cautela su questa strada.
“La patata deve andare in Africa”. Così un funzionario del governo tedesco ha approvato un progetto di cooperazione allo sviluppo lanciato diversi anni fa per diffondere la coltivazione di varietà di patate europee nell’Africa subsahariana.
Il progetto ha suscitato perplessità. La coltivazione di varietà di patate europee richiede una fertilizzazione massiccia, hanno sottolineato organizzazioni non governative (ONG). Dopo aver cominciato a coltivare patate, i piccoli produttori hanno bisogno di una fornitura costante di sementi e fertilizzanti.
Gli osservatori si sono chiesti chi avesse più da guadagnare dal progetto di cooperazione pagato dai contribuenti europei: i suoi beneficiari o le aziende agricole che forniscono formazione, sementi, macchine, pesticidi e fertilizzanti.
Questo è l’enigma che i funzionari dell’amministrazione federale si trovano ora ad affrontare per attuare la nuova strategia del governo di aiuto allo sviluppo. I vantaggi della collaborazione con le multinazionali sono evidenti: i governi donatori traggono vantaggio dal denaro delle imprese, dalle loro competenze e dalla loro tecnologia.
Ma, allo stesso tempo, esperienze ammonitrici, come quella del progetto della patata, dimostrano che bisogna procedere con cautela.
L’Iniziativa per la patata in Africa faceva parte del Partenariato tedesco per l’alimentazione, lanciato nel 2012 con grande clamore. Circa 30 aziende private avrebbero coperto parte del budget del progetto e contribuito con la loro esperienza e le loro attrezzature a migliorare la nutrizione e i redditi degli agricoltori nei paesi in via di sviluppo.
Mentre alcuni progetti proseguono, il partenariato sembra essere stato da allora silenziosamente accantonato, dopo aver suscitato un’ondata di critiche da parte delle ONG, secondo le quali era uno strumento per aprire dei mercati alle imprese agroalimentari europee.
“Se si vuole combattere la povertà e la fame bisogna sostenere i poveri e gli affamati, non aiutare le aziende agricole a fare affari”, ha detto Marita Wiggerthale, un’esperta di sicurezza alimentare di Oxfam Germania, in un’intervista in cui ha criticato il partenariato.
In base ad alcuni rapporti, i raccolti sono aumentati, ma gli agricoltori sono diventati sempre più dipendenti dalle multinazionali per le sementi e i fertilizzanti. Secondo Marita Wiggerthale, in un progetto in Kenya, la Bayer ha venduto oltre il 20% in più di pesticidi ai piccoli agricoltori grazie a corsi di formazione.
Colmare una lacuna
Da decenni si discute su quanto il settore privato debba essere coinvolto nei progetti di aiuto sviluppo. Recentemente si è intensificata la partecipazione a tali progetti.
Di fronte al crescente scetticismo degli elettori, i governi si sentono tenuti a giustificare le loro spese per l’aiuto allo sviluppo. Coinvolgendo le multinazionali, possono ridurre il costo della cooperazione e allo stesso tempo prendersi il merito di aver incrementato le opportunità per le proprie industrie nazionali.
Anche i dirigenti delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e di altre organizzazioni internazionali si sono rivolti al settore privato per compensare le carenze di fondi.
“Quasi tutti cercano di fare di più con il settore privato anche perché c’è bisogno di soluzioni più sostenibili piuttosto che di progetti brevi e isolati”, ha detto Melina Heinrich-Fernandes, che si è occupata per oltre 10 anni nel settore privato di progetti di aiuto allo sviluppo. “Il settore privato può far andare avanti i progetti quando gli aiuti pubblici si fermano”.
Oggi Melina Heinrich-Fernandes è vice-coordinatrice del Comitato dei donatori per lo sviluppo delle imprese, un gruppo di donatori che condivide le conoscenze su come lavorare con il settore privato in modo più efficace. Secondo lei, quasi tutti i 24 donatori con cui lavora hanno fatto dell’impegno del settore privato una parte fondamentale della loro futura strategia di aiuto.
“I dibattiti non riguardano tanto l’opportunità di lavorare con il settore privato, quanto piuttosto il modo di farlo in modo efficace”, ha affermato.
Nel suo piano quinquennale per l’aiuto allo sviluppo, approvato in febbraio, anche il governo svizzero ha deciso di voler “sfruttare appieno il potenziale del settore privato”. La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) ha indicato a swissinfo.ch che aumenterà il numero di collaborazioni e il volume finanziario del suo portafoglio di progetti con il settore privato, che attualmente si aggira intorno al 5%.
Allo stesso tempo, le multinazionali alla ricerca di nuove opportunità di crescita si sono affrettate ad ampliare la loro presenza sui mercati dei Paesi in via di sviluppo. Partecipare a progetti di aiuto governativo risulta per loro piuttosto agevole: le agenzie della cooperazione allo sviluppo aiutano a creare condizioni favorevoli per fare affari, soprattutto in regioni politicamente instabili.
I vincoli di questi progetti
Ma la marea di progetti e i legami sempre più stretti negli ultimi anni tra agenzie di cooperazione e multinazionali preoccupano molte ONG. “I governi stanno effettivamente sovvenzionando il settore privato e ritirando gli scarsi fondi per lo sviluppo dai paesi e dai settori che ne hanno più bisogno”, ha detto María José Romero, responsabile della politica del gruppo Eurodad, una rete di ONG europee con sede a Bruxelles.
Secondo lei, i dati più recenti dimostrerebbero che gran parte degli aiuti utilizzati per attirare fondi privati sono destinati a Paesi a medio reddito, come il Brasile, la Serbia e la Turchia, che sono più attraenti per le imprese, piuttosto che per i Paesi meno sviluppati.
María José Romero teme inoltre che un eccesso di aiuti alle imprese dei Paesi donatori rischi di trascurare le soluzioni e le esigenze locali e di rafforzare la dipendenza nei confronti dei Paesi industrializzati. A detta di Eurodad, ora vengono forniti più aiuti a condizione che i gruppi locali acquistino attrezzature o forniture dal paese donatore.
Nel 2018, i donatori hanno vincolato quasi il 20% degli aiuti bilaterali a fornitori del loro Paese, rispetto al 15,4% dell’anno precedente. Gli Stati Uniti superano di gran lunga questa quota, con circa il 40% degli aiuti legati a fornitori nazionali.
“Perché gli aiuti dovrebbero essere utilizzati per agevolare l’espansione del settore privato in diversi mercati?”, si chiede Daniel Willis, responsabile delle politiche e delle campagne di Global Justice Now, un gruppo britannico che sostiene la cooperazione allo sviluppo.
“Concordo sul fatto che il settore privato possa svolgere in qualche modo un ruolo positivo”, ha aggiunto Daniel Willis. “Spesso, però, è lo stesso settore privato a non voler assumere realmente un ruolo positivo”.
Alcune agenzie per la cooperazione, come quella olandese, non esitano a cercare di aprire le porte alle aziende nazionali. Nel 2018, il governo olandese e quello etiope hanno firmato un contratto di 40 milioni di euro con Royal Philips per consentire alla società olandese di tecnologia sanitaria di costruire un ospedale cardiologico ad Addis Abeba.
In Gran Bretagna, il governo ha irritato gli attivisti, secondo i quali il suo programma di aiuti sarebbe guidato da interessi economici. Il governo ha difeso la sua strategia, affermando che permette un uso più pragmatico del denaro impiegato per la cooperazione.
L’Agenzia svedese per la cooperazione internazionale allo sviluppo (Sida) sottolinea di non voler vincolare gli aiuti all’accesso preferenziale ai mercati per le aziende svedesi e quasi sempre collabora per l’attuazione con una ONG o un’agenzia delle Nazioni Unite.
Una delle ragioni di questo approccio, spiega Maria Stridsman, vicedirettrice di Partenariato e innovazione di Sida, è che “i valori alla base degli aiuti sono la solidarietà e la responsabilità dei paesi ricchi che intendono lavorare per un mondo sostenibile e non per promuovere il proprio settore privato”.
Cambiamento dall’interno
I paesi donatori stanno cercando di evitare alcune critiche, mostrandosi più selettivi nella scelta delle aziende con le quali lavorano, escludendo settori come il tabacco o i produttori di armi dalla lista dei possibili partner. Tuttavia, i donatori non sono sempre al riparo da implicazioni sgradevoli.
Anche i legami del governo svizzero con Nestlé hanno attirato critiche a causa della commercializzazione aggressiva di latte per lattanti, svolta in passato dalla multinazionale, e delle sue pressioni per accedere alle fonti d’acqua locali. Nestlé è una delle circa 30 aziende coinvolte nella Piattaforma svizzera del cacao, lanciata con 9 milioni di franchi dal governo svizzero, che mira a importare tutto il cacao da fonti sostenibili.
Secondo Melina Heinrich-Fernandes, le agenzie di cooperazione hanno lavorato a delle linee guida per garantire che i partner privati rispettino gli standard di attività responsabili. A suo avviso, si tratta però di una grande sfida, tenendo conto di catene di fornitura globali molto complesse.
“Nessuna organizzazione è perfetta, comprese le aziende. I donatori dovrebbero semplicemente astenersi dal collaborare con loro?”, si chiede Melina Heinrich-Fernandes. “O dovrebbero lavorare con loro e aiutarli a migliorare?
Donatori come Sida sostengono che questa è proprio una delle ragioni per lavorare con le aziende – per aiutarle a cambiare le loro pratiche e renderle consapevoli che questioni come l’uguaglianza di genere e l’accesso all’acqua pulita sono importanti.
Daniel Willis di Global Justice Now non è però convinto. “Penso che si tratti di capire a cosa servono gli aiuti allo sviluppo. Noi sosteniamo che prima di tutto si dovrebbe affrontare la disuguaglianza e fornire istruzione e assistenza sanitaria gratuite”.
“Il settore privato non è molto bravo a fare queste cose in modo giusto e inclusivo”, rileva l’esperto di Global Justice Now.
Traduzione di Armando Mombelli
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