Il difficile matrimonio tra aziende svizzere e cinesi
L’Europa è diventata un obiettivo interessante per gli investitori cinesi. Circa 70 società svizzere, tra cui Syngenta, Mercuria e Swissport, sono già completamente o in parte in mani cinesi. Questa evoluzione suscita però timori e dubbi. E solleva la questione di come riuscire a creare ponti tra le due culture.
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Ying Zhang, swissinfo.ch
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Hurdles to merging ‘Swiss Made’ with ‘Made in China’
Gli esperti sottolineano che le fusioni e le acquisizioni non sono sempre sinonimo di buona notizia. L’ondata di acquisti di marche svizzere da parte di società giapponesi negli anni 1970 e 1980 ha lasciato sul selciato buona parte delle aziende che erano state comperate. Il tasso di ‘sopravvivenza’ è stato inferiore al 10%. Da allora la Svizzera è molto più cauta, affermano gli specialisti.
Meno burocrazia
Per alcuni insider, l’acquisto di Syngenta da parte di ChemChina potrebbe seguire lo stesso modello dell’acquisizione della società israeliana Makhteshim Agan, tra i più grandi produttori di pesticidi al mondo. Dopo aver comperato il 60% del capitale del gruppo israeliano nel 2011, ChemChina ha cambiato il nome dell’azienda in ADAMA Agricultural Solutions Ltd.
In un certo senso, l’acquisto di società estere permette ai gruppi cinesi di scavalcare la pesante burocrazia nel loro paese.
Guanglian Pang, direttore della China Petroleum and Chemical Industry Federation, rileva che le dinamiche interne complesse, come il nepotismo, che toccano soprattutto le società statali, obbligano le imprese cinesi a cambiare la loro strategia quando passano da una fase di sviluppo a una fase di implementazione sul mercato.
«Le principali ragioni che spingono le società cinesi ad orientarsi verso l’estero sono le relazioni umane complesse e il lungo processo interno necessario per la presa di decisione», sottolinea. «Fondersi con una società straniera è invece spesso più facile e più rapido».
L’altro problema è legato alla difficoltà di attuare delle strategie a lungo termine, prosegue Guanglian Pang. Nei consigli d’amministrazione, i mandati sono limitati a 10 anni, ma spesso i membri non restano più di 5 anni. E i nuovi arrivati preferiscono spesso concentrarsi sulla loro carriera, lanciando delle riforme piuttosto che mantenere lo status quo.
«Swiss-made» o «Made in China»?
La questione del label rappresenta pure un rompicapo. Il marchio «Swiss Made» è simbolo di costi elevati e di alta qualità; quello «Made in China» di prodotti di scarsa qualità e di basso costo.
Quando delle aziende cinesi acquisiscono un marchio svizzero, evitano di parlare ai media elvetici e respingono spesso e volentieri anche le richieste di interviste di giornali o televisioni cinesi. La ragione è semplice: non comunicando sul tema, le ditte sperano di preservare al meglio il carattere svizzero di una marca e al contempo la sua connotazione di qualità elevata.
Anche i consumatori cinesi accordano grande importanza al label «Swiss made». Le società madri evitano così di trasferire immediatamente i siti di produzione in Cina.
La situazione è diversa per quanto concerne l’innovazione. Diverse grandi società, ad esempio Novartis e Roche, hanno già creato centri di ricerca e sviluppo in Cina. Per questi gruppi è il miglior modo per capire le preferenze e le abitudini dei consumatori locali.
Le fusioni e le acquisizioni cinesi seguono a volte un modello «iceberg»: la consociata svizzera diventa solo la parte visibile. Sotto la superficie, però, le aziende cinesi funzionano secondo principi cinesi, che entrano spesso in conflitto con gli usi svizzeri nel mondo degli affari. Ciò mina la lealtà dei dipendenti e la fiducia dei consumatori.
Cattive abitudini
Alcune aziende cinesi danno anche la caccia ai talenti svizzeri e cercano di attingere a tutti i loro segreti di fabbricazione, infierendo così un ulteriore colpo alla tradizione elvetica di lealtà e reputazione, sostiene Juan Wu, specialista di commercio internazionale presso l’Università di scienze applicate di Zurigo.
«Alcune ditte cinesi portano con sé cattive abitudini in Svizzera, afferma. Ciò danneggia la cultura sociale del paese, costruita sulla reputazione e la lealtà».
Le due culture possono però imparare l’una dall’altra, ciò che permetterebbe di migliorare la situazione. Quando le cose vanno male, sia gli svizzeri che i cinesi puntano il dito sulle «differenze culturali».
Alcuni metodi cinesi piacciano però anche agli svizzeri. Spesso, dopo una fusione con una società elvetica, gli acquirenti americani procedono a licenziamenti collettivi e irritano le sfere dirigenziali. I cinesi dal canto loro preferiscono mantenere tale quale una società acquistata di recente.
Troppa gerarchia
Ciò non basta però per avere la pace in famiglia. I dirigenti svizzeri non sopportano i metodi di gestione cinesi, stando allo studio portato avanti da Juan Wu dal 2012.
Molti svizzeri intervistati dalla ricercatrice si lamentano del fatto che i responsabili aziendali cinesi siano abituati a dare ordini e a criticare i loro dipendenti in pubblico, accordando molta importanza alla gerarchia e alle dimostrazioni di potere. Un comportamento in netto contrasto con quello degli svizzeri, che mettono più l’accento sull’autonomia, la discrezione e la sfera privata.
Ad esempio, un direttore finanziario ha spiegato a Juan Wu che «non poteva abituarsi allo stile paternalista del management cinese e alle equipe che insistono nel parlare mandarino». L’uomo criticava anche l’amministratore delegato «che sembra vivere come duemila anni fa e pensa di essere un re».
D’altro canto, gli amministratori delegati cinesi delle società statali hanno anche le loro ragioni per essere di pessimo umore: spesso percepiscono salari fissati dal governo a 1’200 franchi, spiega Guanglian Pang. Anche se le loro società contribuiscono a coprire alcune spese come l’affitto, la somma è molto bassa.
«A causa di questa differenza di salario, gli amministratori cinesi hanno l’impressione di non essere nessuno, aggiunge Guanglian Pang. Per sentirsi più importanti cercano così di controllare al massimo i loro dipendenti».
Boom degli investimenti cinesi
Da un rapporto pubblicato a fine gennaio da PricewaterhousCoopers emerge che gli investimenti cinesi all’estero, principalmente Europa e Stati Uniti, hanno battuto un nuovo record nel 2015, attestandosi a 67,4 miliardi di dollari, il 40% in più rispetto all’anno precedente.
Quest’anno, China National Chemical Corp (ChemChina) ha annunciato l’acquisizione del produttore di macchinari industriali tedesco KraussMaffei Group. La multinazionale acquisterà anche il gruppo agrochimico svizzero Syngenta per 43,8 miliardi di franchi. Si tratta dell’acquisizione più importante mai effettuata da un’azienda cinese.
Traduzione di Daniele Mariani
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I benefici dell’accordo con la Cina si fanno attendere
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Un anno dopo la sua entrata in vigore, l’accordo di libero scambio tra Svizzera e Cina sembra poter mantenere le sue promesse. Ma di fronte a un’economia cinese in rallentamento e in mutazione, gli esportatori elvetici faticano a prevedere i benefici supplementari che potranno trarre dall’enorme mercato.
Tra il primo luglio 2014 e l’aprile di quest’anno, le esportazioni svizzere verso la Cina sono aumentate del 3,5%. Le merci cinesi importate in Svizzera hanno dal canto loro segnato un incremento del 5,7%. Questa crescita è superiore a quella delle esportazioni (+1,7%) e delle importazioni svizzere (+2,6%) a livello globale, indica la Segreteria di Stato dell’economia (SECO).
In che misura questo incremento è da imputare all’accordo di libero scambio (ALS) tra Berna e Pechino, che necessiterà ancora di diversi anni prima di diventare pienamente operativo?
«Per ora, l’impatto principale è psicologico», risponde a swissinfo.ch Nicolas Musy, cofondatore di China Integrated, un’agenzia di consulenza con sede a Shanghai. «I dazi delle merci che più contano per la Svizzera diminuiranno lentamente. Ci potrebbero volere dieci anni», prevede.
«L’ALS ha però avuto un impatto immediato per ciò che concerne le dinamiche nelle relazioni commerciali tra i due paesi. Le aziende svizzere e cinesi hanno un incentivo ad accrescere ulteriormente la loro attività», puntualizza Nicolas Musy.
In Svizzera, a beneficiare maggiormente delle riduzioni dei dazi doganali dovrebbero essere i settori delle macchine, degli strumenti di precisione, dell’orologeria, della farmaceutica e della chimica.
Ci sono tuttavia diversi aspetti da risolvere prima che le esportazioni di beni e servizi verso la Cina aumentino del 63% rispetto al 2010, per un risparmio annuo di 290 milioni di franchi, come pronosticava uno studio svizzero di fattibilità realizzato cinque anni fa.
A questo si aggiunge l’incertezza sul futuro andamento dell’economia cinese, che in seguito al rallentamento della crescita del Pil si trova in una fase di profonda trasformazione. L’intenzione del governo di Pechino è di passare da una crescita guidata dagli investimenti statali a un’economia basata sul settore privato e sui consumi.
L’anno scorso, la seconda economia del mondo è cresciuta del 7,4%, il tasso più basso dal 1990. L’espansione dovrebbe ulteriormente ridursi quest’anno e attestarsi al 7%.
Vincent Affolter, responsabile del mercato Asia-Pacifico del fabbricante svizzero di ingranaggi Affolter Group, rileva che le ordinazioni dalla Cina sono in calo rispetto all’anno scorso. Le aziende, spiega, preferiscono attendere gli effetti delle riforme.
«Le carte sono state ridistribuite e nessuno sa se il vincitore sarà il settore privato o quello pubblico», afferma Affolter. «Ho la sensazione che le imprese statali credano che le cose non cambieranno. La Cina sembra però seria nella sua intenzione di portare la sua economia su un nuovo livello. Potrebbero emergere opportunità per il settore privato, ma c’è un certo sentimento di insicurezza».
«La strada per riequilibrare l’economia cinese sarà probabilmente lunga e difficile», ha pronosticato a inizio giugno Kamel Mellahi, professore di strategia d’impresa alla Warwick Business School.
La ristrutturazione dell’economia cinese potrebbe però portare molti benefici alle aziende svizzere. «Nel 2008, le aziende che ho visitato disponevano per lo più di vecchi macchinari. Questo sta ora cambiando», indica Vincent Affolter. «È l’unico grande mercato nel mondo che sta passando dai macchinari superati a processi manifatturieri automatizzati».
Lotta alla corruzione
Una seconda ondata di riforme in Cina - la lotta alla corruzione e ai regali ai funzionari - sta gravando sul settore dei beni di lusso e dell’orologeria. Un quarto di tutte le esportazioni orologiere svizzere sono dirette in Cina o a Hong Kong, dove le minori tasse sui prodotti di lusso attirano consumatori dal continente.
L’anno scorso, le esportazioni orologiere svizzere verso la Cina sono scese del 3,6% (-27% negli ultimi due mesi del 2014) e sono rimaste stabili in direzione di Hong Kong. I primi cinque mesi di quest’anno si sono dimostrati volatili, con una riduzione del 19,2% a Hong Kong e un incremento dell’8,4% in Cina.
Secondo Nicolas Musy, l’ALS non avrà molte ripercussioni sull’esportazione di orologi svizzeri verso la Cina continentale. L’accordo prevede la riduzione di alcuni dazi, ma non dice nulla sulla tassa locale applicata sui beni di lusso. Per la Federazione orologiera svizzera, la Cina rimarrà comunque un mercato prioritario a lungo termine. Il suo auspicio è che in futuro si possa negoziare un abbassamento della tassa sul lusso.
Se l’ALS non ha ancora mostrato i suoi effetti positivi è anche perché l’adozione di nuove procedure burocratiche necessita di tempo. L’accordo è complesso e verrà attuato in modo graduale nel corso del prossimo decennio.
A creare problemi, ad esempio, sono state le imbarcazioni partite dai porti europei e che trasportavano merci svizzeri e dell’Unione europea. I responsabili svizzeri e cinesi hanno dovuto ridurre i ritardi causati da ispettori doganali che tentavano di stabilire l’origine dei prodotti elvetici.
Simon Evenett, esperto di commercio internazionale all’Università di San Gallo, ritiene che i vantaggi non tariffali, come appunto delle procedure doganali più rapide, siano stati «lodati eccessivamente» dai sostenitori dell’ALS. «La Cina ha predisposto delle procedure per permettere agli esportatori svizzeri di esporre le proprie lamentele. Ma è ancora da vedere se questo sistema si rivelerà davvero efficace», dice a swissinfo.ch.
Ciononostante, l’accordo di libero scambio tra Svizzera e Cina porterà alcuni benefici per gli esportatori svizzeri, riconosce Simon Evenett. «Si sta andando nella giusta direzione, ma non tutti sono contenti della velocità con cui si avanza», dice.
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Criticata dagli Stati Uniti, la creazione della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (AIIB), promossa dalla Cina, è accolta positivamente dal direttore finanziario della Banca mondiale Bertrand Badré. La nuova istituzione, afferma, permetterà di avere a disposizione ulteriori risorse per la lotta contro la povertà.
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